Libro IV


Del Corso Della Moneta


INTRODUZIONE


A dimostrare l'inutilità dell'oro e dell'argento, e a dar loro quel disprezzo che al pari dell'eccessiva stima certamente essi non meritano, i poeti hanno inventata la favola del Re Mida, di cui dicono che, avendo richiesto a Giove che quel ch'ei vedea e toccava si convertisse in oro; ed avendolo ottenuto, perì miserabilmente di stenti e di fame. Donde giubilando e sghignazzando, della moneta come di materia inutile e chimericamente pregiata si fanno beffe, ed agli uomini denarosi poco di loro curanti comparandosi, si stimano essere assai superiori. Ma s'essi avessero voluto conoscere quanto fondamento ha una tal conseguenza, avrebbero potuto prolungare il racconto così. Che Mida, accortosi dell'errore, e provando crudelissima fame nel mezzo delle credute ricchezze, pregò di nuovo Giove che tutto si convertisse in pane. Fecesi: ed ecco che dovendo vestire di pane, dormire, sedere sul pane, di pane solo cibarsi, senza poter estinguere la sete, arrabbiato morì. Chiunque si fosse accostato a tirare la conseguenza di quest'altra parte della favola, avrebbe immantenente veduta la falsità della prima conclusione. Non sono inutili i metalli, come non lo è il pane; solo è vero che nella terra non v'è creato nulla che naturalmente basti per tutti i bisogni. Nello stato di commercio basta la moneta sola; ma ciò non proviene da lei, ma dagli uomini, i quali quando per affetto s'unissero a beneficare alcuno, anche senza moneta non gli farebbero nulla bisognare. La vera conseguenza dunque è che l'amore degli uomini era quella ricchezza che potea saziar Mida, e sola meritava esser richiesta da lui. Intanto perché un errore preso da' poeti è sempre contagioso, da tutti è oggi la favola di Mida narrata ed applaudita. Sarebbe però tal cosa condonabile, se non si vedessero questi stessi uomini esultare, quando conoscono entrare la moneta in un paese; rattristarsi, quando esce; non ricordevoli più di quanto l'han disprezzata. Sarà perciò utile ch'io dimostri qui essere la conservazione della società l'unico bene; doversi procacciare e custodire una competente quantità di moneta, perché al bene della società conferisce; ma l'accrescerla sempre, esser dannoso; anzi doversi pazientemente lasciare uscire, quando è per salute o per comodo de' possessori suoi. In fine convenire al principe l'amare non la molta moneta, ma il suo moto veloce, regolato e ben distribuito.


CAPO PRIMO


Del corso della moneta.


Io chiamo correre la moneta quel passare ch'ella fa d'una mano in un'altra, come prezzo d'opera o di fatiche; sicché produca in colui che la dà via, acquisto e consumazione di qualche comodità; perché quando si trasferisce diversamente, fa un rigiro inutile di cui non intendo qui favellare. Così se il principe destinasse mille ducati, i quali ogni mattina dovessero trasportarsi dalla casa d'un suo suddito a quella d'un altro, un tanto giro né gioverebbe allo stato, né accrescerebbe forze o felicità, ma solo molestia e trapazzo a' cittadini. È adunque il corso della moneta un effetto, non una causa delle ricchezze; e se non si suppongono preesistenti molte merci utili che possano trafficarsi, la moneta non può far altro che un giro vano ed infruttuoso. Perciò quegli ordini che conferiscono a moltiplicar le merci venali, sono buoni; gli altri sono tutti cattivi e dannosi. Stieno in una camera chiuse cento persone con una certa somma di denaro a giuocare. Dopo lungo giuoco avrà il denaro avute certamente innumerabili vicende, ed altrettante la ricchezza e la povertà de' giuocatori; ma il totale non è né cresciuto, né diminuito mai, e nel luogo non si può dire variata la ricchezza. Vero è che il mancare il corso impedisce il proseguimento delle industrie e perciò genera povertà, come per contrario il corso veloce le fomenta: ma chi ben riguarda osserverà che il corso della moneta può ingrandire e stabilire le ricchezze già cominciate ad essere in uno stato, non generarle ove non sieno. Sicché sempre è vero che s'abbia a pensare prima ad aver merci, e poi a dar loro il corso, acciocché vendute e consumate presto le une, si dia luogo alle altre di succedere. È vero ancora che un rapido giro fa apparire una non reale ricchezza, come è là dove la nobiltà vive con lusso e spese superiori alle rendite sue, e i debiti che fa non gli paga. I nobili non si persuadono essere impoveriti; ma il mercante che numera i suoi crediti come certa ricchezza, si stima ricco e sulla creduta rendita ingrandisce la spesa; fino a che tutti e due, il nobile e il mercatante, vanno giù poveri, e troppo tardi disingannati. È dunque tanto peggiore un tale rigiro pieno di fantasmi di ricchezze, quanto è peggiore della povertà il credersi ricco e non esserlo.


Sono dunque assai riprensibili quelli scrittori che, lasciatisi ingannare dalle voci del volgo, e confondendo gli effetti colle cause, propongono animosamente al principe loro l'accrescere la quantità della moneta, e ne bramano accresciuto il corso; mentre non si ricordano neppure dell'agricoltural e della popolazione, dalle quali unicamente viene il corso utile e vero. La quantità del danaro non s'ha da accrescere, se non quando si vede non esser bastante a muovere tutto il commercio senza intoppare e lasciarlo in secco: e come si possa acquistare tale conoscenza, è quello ch'io vengo ora a dichiarare.


Gio. Locke volendo dimostrare quanto danno arrecava all'Inghilterra lo scemare il frutto del danaro, per la diminnzione della l quantità necessaria al corso che ne potea seguire, entra a ricercare. quanto danaro si richiedesse a' bisogni dell'Inghilterra, ed a mol strare come essa n'era assai mal provveduta. Vero è ch'egli non siegue un esatto computo, contentandosi di scoprire la verità che cerca, quasi in un barlume. Divide il popolo tutto in quattro classi. La prima de' lavoratori, che noi diciamo bracciali, quali sono i contadini e tutti i bassi artigiani. L'altra degli affittuari di terre e de' capi artigiani; cioè di coloro che diriggono e pagano que' della prima, e del frutto delle fatiche di quelli, promosse, dirette e raccolte da essi, fanno un corpo di commercio che si dà a spacciare a' mercatanti e bottegai, che sono nella terza classe. Questi, che in inglese egli chiama brokers, sono coloro che non applicano alla cultura delle terre, o all'arti; ma raccolgono, mediante il danaro che è l'unico loro fondo, le manifatture e i viveri, e poi o gli trasportano, o gli serbano, o gli adunano, o gli scompartono, e così guadagnano vendendogli più cari a' consumatori. La quarta è di coloro che si consumano le merci che sono per mano dell'altre tre classi passate.


I primi non sogliono ritenere molto danaro, vivendo dalla mano alla bocca: e poiché sono pagati ogni sabato, si può accertare che in mano loro non v'è altro danaro che il prezzo d'una settimana di fatiche, o sia la 52ma parte di quanto in un anno guadagnano.


Gli affittuari non possono aver meno d'una quarta parte dell'affitto, o in mano loro, o in quella de' loro principali, di denaro non circolante; pagandosi in Inghilterra gli affitti in due semestri, che maturano il dì dell'Annunziazione a marzo, e di S. Michele a settembre.


De' mercanti non si può tener conto esatto; giacché v'è disparità grandissima tra la velocità con cui i grossi negozianti e i piccoli bottegai rigirano il loro denaro. Pure egli dà a tutti compartitamente la 20ma parte del profitto annuo in denaro contante, che sempre resti loro in mano.


De' consumatori, il numero de' quali è il maggiore, non fa computo nessuno, essendo impossibile farlo, e non abbagliare. Per altro nemmeno il fin qui fatto è molto sicuro, essendovi moltissimi che riuniscono in loro stessi più d'una classe, trovandosi insieme padroni di terre, negozianti e consumatori. Delle donne poi, degli ecclesiastici, de' ministri, e d'infiniti altri stati non si può far calcolo dietro a queste tracce; come nemmeno de' dazi pubblici e del corso che vi fa la moneta. Ma le riflessioni che Gio. Locke fa sullo stato dell'Inghilterra d'allora, sono utili e giudiziose assai, e saranno da me appresso rapportate.


Voglio io intanto mostrar la maniera con cui mi pare si possa conoscere quando un regno ha bastante moneta, e quando no, esaminando questo di Napoli. In esso si può credere, per quella notizia migliore che se n'ha, esservi poco meno d'un milione e mezzo di ducati in moneta di rame, quasi sei milioni d'argento, e dieci al più d'oro, compreso anche quel denaro che è ne' Banchi, e che non eccede tre milioni di ducati.


Dovendo tal denaro servire al commercio di tutte le merci che vi si consumano, conviene ora tentare di sapere quante queste sieno, per vedere se possano esser mosse da soli diciotto milioni di ducati. Il cavalier Petty inglese ha calcolata quasi la medesima cosa appunto; e poi un altro scrittore dell'istessa nazione, poco tempo fa, volendo dimostrare che i debiti dello stato non erano così grandi come parevano, ha sommato il valore dell'Inghilterra assai ingegnosamente, sebbene con operazione lunghissima. Il di lui metodo io non m'arrischio a seguire, ancorché io conosca esserne vera la conseguenza; mentre di questa nazione siccome il valore nell'operare trabocca in temerità, così l'acutezza del pensare si distacca spesso dalla verità, tenendo dietro all'astruso ed allo strano. A me pare esservi una via accorciatoia, che quando anche non mi guidasse all'esatto vero, il che sempre sarebbe difficile, mi guida dentro certi confini di verità, ne' quali bastantemente sono in istato di tirar quelle conseguenze che m'importa ricavare.


Imprima è certo che il consumo totale del nostro Regno è uguale al pieno de' suoi prodotti. Perocché sebbene moltissimi generi vengano di fuori a consumarvisi, molti de' natìi ne vanno. E senza curar di sapere a quanto ascendano, è certo dagli effetti che le due valute sono in circa eguali: giacché il Regno non s'arricchisce, né s'impoverisce strabocchevolmente; de' quali effetti l'uno o l'altro è inevitabile quando v'è gran disequilibrio tra l'ingresso e l'emissione: bastaci dunque sapere quanto noi consumiamo in un anno. Un uomo, per povero che sia, non può in alcuna parte del Regno vivere con meno di 20 carlini il mese, quando si dovessero ridurre a prezzo e la pigione della casa in cui vive, e tutto quel che vestendosi o nutrendosi colle proprie mani si risparmia; e tutto quello ancora che senza denaro ei ricoglie, come sono le piccole industrie de' contadini di galline, uova, cacciagione, legna, viveri, frutti freschi, ed altro. Ognuno vede che io mi metto di sotto al vero. In Napoli non si può vivere con meno di sei ducati; e chi vive con meno o ha il vitto, o le vesti, o l'abitazione da altri pagata. È noto intanto che molti per sé soli spendono fin 15 o 20 ducati il mese; ed èvvene chi ne consuma a vivere 50 o 60. Né questo ch'io dico ora sembri poco; perché i gran signori il più lo spendono a dar da vivere a chi serve loro, e questo denaro io già lo vengo a computare nella spesa di costoro: e perciò nemmeno de' dazi pubblici parlo; mentre è tutto compreso nella spesa di coloro che vivono di soldi e mercedi del sovrano. Sicché un termine mezzo, stante l'assai maggior numero de' poveri che de' ricchi, sarebbe di un 7 o al più di un 8 ducati per uomo il mese. Ma riguardando che le donne vivono con meno che gli uomini, i fanciulli consumano pochissimo, e pur sono la quarta parte del genere umano; e finalmente avvertendo che io parlo qui della spesa che produce consumo, e non di quella che arricchisce un altro, quale è il giuoco, il dono, i salari; credo poter fissare la spesa d'ogni uomo ragguagliata a 4 ducati il mese, o per meglio dire, che quel che ogni uomo consuma, vale, compreso tutto, 4 ducati. Il Regno ha poco più di tre milioni d'abitatori: sono dunque dodici milioni il mese, e 144 milioni l'anno il valore delle merci consumate.


Or siccome ne' calcoli, per non fallarne la conseguenza, bisogna proccurar che l'errore cada sempre nella parte opposta a quel che si bramerebbe; io voglio supporre che avessi nel mio computo sbagliato del doppio, e che i frutti e le fatiche consumate in un anno nel Regno valessero 288 milioni; pure si può mostrare che 18 milioni di moneta ci bastano. In primo bisogna dedurre tutto quel consumo che si fa dallo stesso raccoglitore, onde è che non vi si richiede danaro. Così chi abita alle case proprie, come è in quasi tutto il Regno, eccetto Napoli, chi mangia il suo grano, beve il suo vino, e così d'ogni altra cosa, non ha bisogno di moneta: e quanto ciò importi principalmente a' poveri, lo può ognuno riflettere da sé. In secondo s'ha da togliere tutto il commercio che si fa con le merci stesse: così a' lavoratori quasi da per tutto si dà grano, vino, sale, lardo per mercede, e questo non l'ha comprato il padrone. Bisogna dedurne tutte le permute e baratti che si fanno regolate su' prezzi futuri delle voci. E in fine riguardando che i contadini, i quali sono i tre quarti del popolo nostro, appena adoprano di denaro la decima parte del prezzo del loro consumo; si dovrà confessare che io m'appongo assai assai di sotto al vero, contentandomi di dire che la sola metà de' frutti del Regno abbiansi a dedurre, come consumati senza moneta. Restano 144 milioni, i quali sono l'ottuplo di 18 milioni: sicché basta che la moneta tutta ragguagliatamente passi per otto diverse mani in un anno in forma di pagamento, per raggirare tanto commercio. Un moto tale non mi pare così veloce, che possa dirsi impossibile o difficoltoso. E perciò sono persuaso che la moneta nostra sia bastante; ed essendo non solo inutile, ma pernicioso l'accrescerla, secondo si dimostrerà al capo che siegue, sono cattivi consiglieri coloro che ci animano ad accumularne più.


Meriterebbe essa sì bene aver corso non solo più veloce, ma meglio distribuito e più eguale in tutti i canali suoi, per non voler che sieguano molti effetti nocivi; de' quali mi conviene ora ragionare, e poi de' rimedi da apporvi.


I. Il poco corso rovina l'agricoltura e le arti. È del corpo politico, come dell'uomo, in cui le vene grandi non servono ad altro che a condurre il sangue nelle vene ultime e piccolissime: in queste si fa la nuova generazione della carne e delle membra, e la nutrizione della macchina: quando si vuota il sangue, le capillari e più utili vene disseccansi, e il rimanente si raccoglie tutto nelle cavità maggiori, donde non viene nutrimento veruno. Così la scarsezza del denaro costringe i coloni a vendere in erba co' prezzi della futura voce i loro frutti: onde si espongono a soffrir tutto il danno delle calamità, senza gustare il profitto de' prezzi cari. Perciò s'impoveriscono; e allora restringono la coltivazione in minor terreno, danneggiando così all'intiero stato per salvar sé medesimi. Intanto la moneta si congrega tutta in mano de' negozianti, quanto è a dire de' tiranni del commercio, de' quali è il guadagno maggiore, sebbene essi sieno i meno utili allo stato, come quelli che né coltivano, né lavorano, né producono alcuna vera comodità.


II. La povertà de' fattori è riparata da costoro con mezzo tale, che la pena ne cade poi tutta su i miserabili contadini e bracciali, che non potendo esser pagati in contante da' loro conduttori, sono pagati con grano, vino, olio, cacio, lardo: il quale non solo è valutato loro a prezzo carissimo, ma è spesso dato guasto, puzzolente e mortifero, con quella crudeltà e barbarie ch'è compagna dell'avarizia. Né da sì grave tirannia può il villano salvarsi, essendo universale. Così diviene infelicissima la condizione della più utile gente dello stato, che sono i villani.


III. Per altra parte si distruggono anche le fattorie. Poiché quando i maestri delle arti cominciano a pagare gli operai co' viveri, ai mercati ed alle fiere scemano i compratori, non comparendovi altri che pochi a prender grosse partite di merci per distribuirle in pagamento a' garzoni. Dove vi sono pochi venditori, o pochi compratori, difficilmente v'è libertà ne' prezzi. Perciò i contadini troVanvi bassissimi prezzi alle merci loro; onde non potendo ritrarre le spese delle fattorie, queste vanno subito a male. Di sì fatto inconveniente si doleva l'Inghilterra quando ne scrisse Gio. Locke, avendo i mercanti di panni per la mancanza del danaro fatti fallire il più degli affittatori per la causa sopraddetta.


IV. La poca quantità del danaro ha da tenersi per la madre delle usure, e di quella spezie di guadagni che da noi sono stati rivestiti ed abbelliti col nome d'interessi; nome meno odioso ed orribile, ma spesso niente più virtuoso. Que' guadagni strabbocchevoli che si fanno con comperare le merci, e dopo ritenutele pochi mesi, rivenderle, nascono anche dalla istessa cagione; e si potrebbero benissimo dire interessi, e usure esatte su i padroni delle terre, che hanno avuta necessità di disfarsi troppo sollecitamente delle loro ricolte.


Né alla grandezza delle usure dà riparo l'accrescimento del danaro, come molti credono; ma solo il migliorarne il corso, e distruggerne il monipolio. Tra chi ha 100 ducati, e chi n'ha 1.000 v'è sempre la stessa disuguaglianza che tra chi ne ha 200, e chi 2.000: ma se chi prende ad annua rendita 100 ducati avrà dieci offerte di gente che non trovi ad impiegare, non soggiacerà a così dure condizioni, come le avrà da un solo vecchio e dispietato usuraio. Perciò nel Regno gl'interessi sono tra il 7, e il 9 per 100, e in Napoli tra il 3, e il 5. Ivi per lo più in una intera città non v'è che un solo che abbia da poter dare; nella capitale ve ne sono quasi infiniti. Molte volte neppur quest'uno v'è; ma v'è qualche ricca cappella, o confraternita, gli amministratori della quale prendono allegramente il denaro di lei anche a grosso interesse, sperando non pagarlo; e restando poi di tale speranza falliti, aumentano colla loro ruina le rendite di quel luogo pio, che è stato il loro trapezita. Così a tempi nostri i poveri sono divenuti gli usurai de' ricchi, ed i ricchi gli amministratori delle rendite de' poveri.


Parmi già luogo di adempiere ciò che nel libro antecedente ho promesso, e dire quanto sia gran difetto il congregarsi e colare la moneta in poche mani a ristagnarvi. Ciò proviene sempre da vizio che sia negli ordini fondamentali del governo, e perciò si trae infallantemente dietro la mutazione intera di esso, e così solo si sana. Roma antica da che si sottrasse dai re fino alla prima guerra punica non ebbe altri accidenti che le liti originate dalla diseguale ricchezza de' suoi cittadini; la quale quando coll'acquisto di nuove terre, colle colonie, e colle leggi agrarie fu emendata, mutossi la Repubblica, e da aristocratica divenne democratica tanto, che alla fine restò d'un solo, secondo è l'ordine naturale di somiglianti mutazioni. Le crudeli usure, la servitù, i tumulti popolari, l'estinzione de' debiti nascevano tutti dalle ricchezze diseguali: e queste principalmente traeano origine dalle guerre, sì perché furono continue, sì perché si faceano a spese del soldato; cioè di quel villano che abbandonava il lavoro de' campi e la ricolta. Perciò al Senato, composto tutto di denarosi e d'usurai, era a cuore il guerreggiare. E siccome combattendo il popolo divenne forte, e spesso vittorioso, i frutti delle rapine gli furono di sollievo, e la virtù acquistata gli dette in fine coraggio a mutar la forma del governo da aristocratica in popolare. Sono adunque le guerre cagione primaria dello stravasamento delle ricchezze; le quali anche a giorni nostri ne' tempi di guerra si veggono ragunarsi tutte in mano de' provveditori, de' negozianti, e degli affittatori de' tributi: e perciò l'alzamento, con cui il principe si disobbliga da costoro, non è nocivo al popolo, ma salutare.


Giacché ho enumerati i danni del poco corso, è giusto dire anche. de' rimedi.


Il I è la piccolezza de' pagamenti, divisi in intervalli brevi. Se mille uomini in uno stesso dì hanno a pagare un milione di ducati, è certo che si richiede un milione nelle loro mani, non potendo due pagar colla stessa moneta. Ma se pagheranno in due semestri mezzo milione per volta, molto del denaro pagato può tornare nelle loro mani a far nuova comparsa; e così con sei o settecento mila scudi si rappresenterà un milione. Quanto saranno i pagamenti minori, e più suddivisi, tanto minor denaro gli raggirerà, e meno ne resterà neghittoso ed ammucchiato. Di ciò ha sapientemente ragionato il Locke: ma di somigliante difetto mi pare non potersi il nostro Regno dolere.


II. Le fiere e i mercati grandi. In essi si fa gran giro in un punto,. e spesso senza denaro nessuno, stante la presenza di tutti i contraenti. Per favorir le fiere conviene dar qualche esenzione di dogane; essendo sempre maggiore la valuta d'una mercanzia in fiera, che non portata a dirittura a' luoghi dello smaltimento, e principalmente nel Regno di Napoli, che essendo quasi un promontorio in mare ripieno di porti, è per ogni parte accessibile con piccola spesa.


III. I contratti alla voce sono salutevoli ad un paese per promuovere la coltivazione, quando la voce è ben messa: e il pagar gli operai più con merci che col contante sarà preggevolissimo, quando non sieno oppressi e maltrattati.


IV. Il buon regolamento de' dazi è manifesto essere utilissimo al regolato corso del denaro. Così se i pagamenti che si fanno alla dogana di Puglia finita la fiera, quando per lo caldo è abbandonata, si facessero il novembre, si ruinerebbero i padroni delle gregge. S'hanno dunque a mettere i dazi in modo che chi gli ha da pagare si trovi sempre col danaro alla mano. Né sarebbe indegno della cura del principe il fare che i tributi fossero in parte esatti in quelle merci ch'egli ha necessità di comprare. Un principe che dà cento mila tumoli di grano alle sue truppe, quando gli compra col contante raccolto da' tributi, aggrava i padroni de' terreni come se n'esigesse cento trenta mila; e il valore de' trenta mila è il guadagno degli uomini denarosi, cioè de' negozianti, e de' finanzieri; gente che essendo meno utile de' primi non meritava guadagnarli. Oltracciò il danaro soffre un ravvolgimento più lungo: e il far più tortuoso il letto al fiume è sempre lo stesso che rallentarne il corso.


Da tale regolamento di prendere i tributi in opere, non in moneta, usato ne' secoli barbari non per prudenza ed amore al ben pubblico, ma per necessità, venne la forza grande e meravigliosa che vediamo essere stata ne' popoli e ne' principi di quelle età; le fabbriche de' quali e le altre opere magnifiche e stupende mostrano quanto valessero più di noi. E sarà sempre più ricco il principe che non riduce tutto in danaro il suo avere, come è più ricco quel privato che vivendo in mezzo alle sue fattorie non compra tutto di quel ch'ei farebbe se vivendone lontano ne traesse solo denaro, e ciò che gli bisogna l'avesse poi a comprar col contante.


V. La brevità delle liti, e la sicurezza delle convenzioni scritte. Forse meritava questa d'essere numerata come prima.


VI. La libertà del denaro, e i pochi vincoli di legge. Quel terreno su cui sono inestricabili inviluppi di censi, di fedecommessi, di doti, di legittime, e di debiti anteriori, è impossibile che sia ben coltivato. Né può esser venduto, non essendo sicuro il denaro al compratore: e quanto sia gran danno esser le terre inculte l'ho replicato bastantemente.


È errore adunque credere che i torbidi d'un foro cavilloso e disordinato possano conferire al bene d'uno stato dando movimento alle ricchezze, e facendo sorgere ogni dì nuove famiglie. Non nego esser vero che i litigi non solo non generano ristagnamento, ma danno moto impetuosissimo agli averi, come quelli che in vece di far passar le ricchezze da' possedenti a' pretensori, le trasportano da tutti e due agli avvocati; i quali stanchi per non trovare ove impiegarle sicuramente, le spendono tutte prodigamente, dissipandole tra 'l minuto popolo, da cui appena raccolte, sono di nuovo dagli avvocati ingoiate, e così perpetuamente raggirate da capo: né le liti cagionano universale povertà. Ma è da confessarsi nel tempo stesso ch'esse rendono amarissima e crucciosa la vita, e consumano un tempo ed una applicazione che potrebbe esser lucrosissima, se tutta si consecrasse a moltiplicare la vera quantità delle ricchezze, non a cambiar la mano del possessore.


E per quanto s'appartiene al corso della moneta nel Regno di Napoli, sebbene io abbia destinato altrove scriverne, pure voglio qui dire come in esso sono due creduti gravissimi mali. La sproporzionata grandezza della capitale, e la sproporzionata grandezza del tribunale: le quali due cose meglio si direbbe che furono mali una volta, ma, siccome ogni morbo col tempo o si sana, o si muta la complessione del corpo in modo che abituatasi al male lo converte in natura sua, questi oggi non sono più mali. Vero è che la venuta d'un principe proprio inevitabilmente e per legge intrinseca fa crescere vie più la capitale ove ei risiede, e richiama più liti al foro; ma l'una e l'altro dopo breve tempo vanno a migliorarsi. La capitale giunge a tanta grandezza, che alla fine discaccia da sé i nuovi ospiti: nel tempo stesso che le provincie per l'acquisto della libertà e del commercio si popolano. Il tribunale oppresso dalla sterminata folla delle liti si corrompe, e si disordina in guisa tale, che non potendo più peggiorare, né essendo alle cose umane concesso il fermarsi mai, conviene che si riordini e si migliori. Ed a tutti questi accidenti, perché provengono da cause naturali, non han colpa né merito i cittadini.


La sola presenza del principe dunque basta a sanare uno stato da ogni infermità. Che se poi egli sarà d'ottime e virtuose volontà, e d'animo saggio e grande, come è quello che la Provvidenza ha donato al Regno di Napoli, mossa forse a compassione delle sue tante e sì lunghe avversità, si anticipa di molto il tempo della guarigione. Ma ogni principe, quando non sia un tiranno, sempre ravviva uno stato: e perciò la presenza del principe sarà da me numerata in VII luogo come una cagione principalissima a perfezionare il corso della moneta. Da lui è dato impiego e stimolo a faticare a tutti. Di qui nasce il lusso; e dal lusso la magnificenza, e la letizia, e i dolci costumi, e le arti, e i nobili studi, e la felicità. E poiché io ho tanto spesso nominato questo lusso, non è fuori del mio proposito ragionarne una volta posatamente.


Digressione intorno al lusso considerato generalmente.


Hanno tutti gli uomini una avversione contro certe voci, l'idea corrispondente alle quali è così oscura e diversa, che pare la parola e non la cosa essere con tanto consentimento universale biasimata. Ma ciò che fa più meraviglia a' savi è il vedere che queste odiate cose son credute essere radicate in tutti, o quasi tutti coloro che le abborriscono. Non entrerò qui ad enumerar tutte le voci ch'io credo essere di tal natura; poiché non potrei nominarne alcuna senza dover dimostrare che tale ella sia, o soggiacere al pericolo d'esserne riputato folle e stravagante. Ne nominerò ciò nondimeno una sola; ed è la voce politica, la quale ognuno nella condotta della sua vita bramerebbe avere; e nell'istesso tempo la biasima come nemica all'innocenza e alla virtù, senza arrischiarsi però a diffinirla mai. Simile a costei è la voce lusso. Si dice ch'ei sia dannoso e brutto; lo vietano i maestri del costume; lo deplorano gli storici, e più anche gli oratori e i poeti; lo deridono i comici; l'odiano le leggi; si riprende nelle private conversazioni; e intanto n' è pieno il mondo: tutte le nazioni e tutti i secoli, fuorché i barbari e ferini, lo hanno avuto; né alcuno sa, né alcuno s'arrischia a dire che cosa il lusso propriamente sia. Così questo spettro, che tale conviene si dica, erra d'intorno a noi, non mai nel suo vero aspetto veduto, né mai efficacemente, o forse non mai di vero cuore percosso. Ma chiunque egli sia, certo è ch'egli è il figliuolo della pace, del buon governo, e della perfezione delle arti utili alla società; fratello perciò alla terrena felicità: poiché il lusso altro esser non può che l'introduzione di que' mestieri, e lo spaccio di quelle merci che sono di piacere, non di bisogno assoluto alla vita. Non può perciò nascere il lusso se non quando le arti necessarie sono a sufficienza di operai provedute: e ciò accade in due modi, o quando la popolazione s'aumenta, e la popolazione vien dalla pace e dalle buone leggi; o quando si perfezionano le arti, che non è altro che la scoperta di nuove vie onde si possa compiere una manifattura con meno gente, o (che è lo stesso) in minor tempo di prima. Allora restano disoccupati molti: e costoro per non morir di fame si volgono a soddisfare gli uomini con lavorìi men necessari; ed ecco il lusso.


È bensì vero che il lusso è l'infallibile indizio sempre, e l'avviso della vicina decadenza d'uno stato: ma lo è non altrimenti che l'ingiallir delle spighe è segno del vicino diseccamento. Indizio di declinazione, ma pur tanto aspettato e bramato, e per cui tanti sudori eransi sparsi, tante cure prese, tanti travagli sofferti. Indizio che nella bella stagione apparisce, e colla letizia universale è sempre congiunto. Verde e fresca è la pianta, ma infruttifera in mezzo alle tempeste del verno. Si dissecca quando ci ha de' suoi frutti arricchiti. Così i regni e gl'imperi, nobili piante dell'augusto giardino di Dio, sono di forza e di feroce vigore ripieni nel crescere tra le guerre e le interne discordie. Ma quando col valore dell'armi e colla prudenza delle leggi sono ridotti in pace ed opulenza, non essendo concesso loro in un medesimo stato lungamente fermarsi, cominciano le ricchezze e il lusso a corrompergli: e tornatavi la servitù, tutta la folla de' mali, che nella schiavitù hanno il loro capo, veggonvisi tornare: e così dal disordine all'ordine, e dall'ordine al disordine perpetuamente si viene. Tanto è dunque volere impedire il lusso nella prosperità, quanto il voler che nella state le biade per tanto tempo culte non fruttifichino, o che dopo il frutto si serbino verdi ancora.


Non è dunque, come fece il Melun, da applaudire il lusso, e lodarlo come origine d'ogni bene. Egli è effetto, e non cagione del buon governo: a lui va dietro, ed è spesso il corruttore e l'inimico suo. Ma né anche è da maledirsi tanto come si fa; poiché può ridursi ad esser tale che non sia molto nocivo, facendo consumar dal lusso le industrie de' concittadini, non quelle degli stranieri. Evitato questo male, gli altri tutti, che si declamano tanto, non sono tali. Se pel lusso le famiglie nobili s'impoveriscono e s'estinguono, le popolari si moltiplicano e si sollevano. Una sola differenza v'è, che le antiche famiglie essendo sorte in tempi feroci, non hanno altra origine che fra l'armi, né altre ricchezze di quelle che la rapacità, le guerre e le discordie dettero loro. Le nuove coll'industria in seno alla pace ne' secoli di lusso si sono ingrandite: delle quali maniere di crescere, quale sia migliore è facile a definire. Ma essendo a' poeti ed agli oratori piaciuto render gloriosa la militare barbarie chiamandola virtù, e dichiarare ignobile l'industria mercantile, gli uomini prezzano più quella via d'arricchire, che questa: di che non mi meraviglio. Mi meraviglio bene che molti maestri del costume, non avvertendo che si lasciano dall'error comune trasportare, gridino sì forte contro al lusso, prendendo tanta cura della conservazione di quelle famiglie che spesso ad altro non servono che come monumenti illustri della infelicità de' secoli passati. Il principe essendo padre comune non ha da nutrir simiglianti riguardi; e fuorché le ricchezze dentro allo stato restino, e pacificamente da uno ad un altro trapassino, di più non dee curare. È certo che oggi che il mondo è pieno d'abitatori, uno non può arricchire senza che altri impoverisca: e chi potesse quasi dal cielo sopra tutta la terra guardare, troverebbe quel cinese, o giapponese, sopra di cui si sarà un europeo arricchito. E questa varietà è tra l'arricchir coll'armi o coll'industria; che l'armi spogliano que' popoli convicini, che poi sudditi ed amici ci saranno. Il commercio succhia il sangue anche a' più lontani; meno gloriosamente sì, ma con più comodità. Avvertano perciò i principi a non lasciar predare i loro sudditi dal lusso delle merci straniere; anzi che, per quanto si può, su i popoli sontuosi ed infingardi, o per meglio dire mal governati s'arricchiscano, e poi ad altro non pensi: che l'industrioso per legge di natura si farà sempre premiare per le sue fatiche; il pigro si lascerà sempre battere e impoverire.


Ciò che ho detto s'intende tutto del lusso generalmente riguardato; poiché ve ne son molti particolarmente cattivi. Tale è quello che ritiene molte persone oziose ed inutili; quello che scema a' poveri l'elemosine; quello che ha con sé congiunta l'impuntualità de' debitori. Difetti tutti meritamente ripresi e corretti: ma il parlar d'ognuno di questi mi menerebbe in lungo, e fuori dal proposito mio.

CAPO SECONDO

Dell'accrescere la quantità della moneta.


Egli è cosa verissima ed assai conosciuta essere tra 'l corpo umano e i corpi misti delle società grande e mirabile somiglianza; ma da tale cognizione non so perché non si è ritratto finora tutto quell'utile che si poteva: poiché essendosi la medicina in molte sue parti migliorata e ridotta al vero, era naturale che la politica sorella sua fosse rischiarata dal riverbero di quel lume. Lungo tempo ha prevaluto tra i medici una setta che abborriva dal salasso, replicando sempre essere il sangue il nutrimento più puro e più nobile; costare grandissimo tempo e fatica il formarsi; starsi in lui la principal fede della vita; e perciò repugnare alla natura il buttar via ciò ch' ella tanto ama e moltiplica e conserva. L' esperienza però vincendo i sillogismi alla fine ha dileguate queste larve, facendo palese l'utilità e la necessità del salasso; e che non l'acquisto o la custodia del molto sangue, ma la perfetta costituzione di esso, e la quantità proporzionata al corpo ed al moto nelle vene sosteneva la vita. Così discacciato un errore tanto pernicioso, molti mali prima incurabili sono divenuti non perigliosi. Ha la scienza del governo i suoi Galenici ancora, i quali risolutamente insegnano che il danaro è il sangue d'uno stato, il succo nutritizio e vitale; che conviene aumentarlo sempre, né lasciarlo mai posare ne' vassellami preziosi; dicono doversi mandar fuori tutto ciò che avanza a prender oro ed argento; tenere esercitata la zecca, e così nuotare e tuffarsi nell'oro; propongono lo scavamento delle miniere proprie, la conquista delle altrui; bramano troncato il commercio coll'Indie antiche diseccatore de' metalli ricchi; né finalmente biasimano le leggi che con severe pene vietano l'estrazione del metallo, coniato o non coniato ch'ei sia. La somiglianza de' princìpi, degli argomenti e delle conseguenze dovea pur troppo far dubitare che potesse esser comune l'errore: né l'uniforme accordo di tutti i politici in questa sentenza bastava ad assicurarla per vera. Io adunque (forse il primo) mostrerò che per la medesima fallacia si sono abbagliati ed i filosofi e gli scrittori dell'arte del governo; e che niuno de' sopraddetti è consiglio buono o fedele.


Ludovico Antonio Muratori ha lasciato scritto così: ((S'ha dunque sopra ogni altra cosa da avvertire che tutto il governo economico d'un paese si riduce ad una sola importantissima massima: cioè a fare che esca dallo stato il men danaro che si può, e che ve ne s'introduca il più che si può. Ognun sa che buon amico sia questo...)). Nel libro II ho dimostrato non essere il danaro il migliore amico nelle avversità d'uno stato, ma i molti sudditi e fedeli; siccome ad ogni uomo sempre più gioveranno i veri amici che i grandi averi. Qui dimostrerò come il denaro quando è soverchio non che amico è nemico.


Supponiamo imprima che al nostro Regno, già bastantemente provveduto di moneta, ne fosse donata altrettanta, sicché egli ne avesse trentasei milioni di ducati. Finché un tanto metallo resterà fra noi, non saremo né più ricchi, né meglio agiati. Il corso e la distribuzione della moneta non si correggerà coll'accrescerla, se la nuova si spanderà colla stessa proporzione con cui era distribuita l'antica; e pure così seguirà quando non si diano ordini migliori. Ne ritrarremo adunque solo il dover con sei once di metallo permutare quel che prima si aveva con tre: e ciò sarà di molestia per lo maggior peso, non di giovamento alcuno. Sicché fin tanto che resta il nuovo denaro fra noi, il dono è stato inutile e poco desiderabile. Che se noi estrarremo il denaro, è certo che potremo ritrarne molte merci e molti comodi della vita. Ma siccome il nostro Regno produce abbondantemente tutto quanto a' primi bisogni si ricerca, altro non possiamo comprare che merci di lusso e di voluttà. Or questo non è altro che promuovere lo spaccio delle industrie altrui, premiare i loro sudori, accrescere le loro ricchezze, e dar loro mezzo di poter venire con quel denaro istesso a comperare il nostro grano, il vìno e l'olio, e così nutrirsi, popolarsi e rendersi forti e formidabili a noi. Il molto denaro adunque, se si ritiene è inutile, se si spende è dannoso; essendo cosa manifesta doversi da chi governa attendere a debilitare sempre i principati altrui con quelle arti e mezzi che non offendano la virtù e la religione; e doversi rendere la vita de' sudditi più felice e più desiderabile, che de' popoli convicini.


Ma, quel ch'è peggio, l'oro e l'argento non ci sono donati. Si comprano, e si comprano caro con merci nostre o mandate all'America, o a que' popoli che mandanvi le loro. Finché un paese si provegga di tanto metallo che riempia le vene del commercio, giustissima è la spesa, né per qualunque prezzo è cara la compra di metalli tanto necessari; ma da che ne ha la giusta quantità, non può comprargli con merce che non sia più utile de' metalli, che divengono allora inutilissimi. Or perché mai s'ha da accrescere agli stranieri, e talora anche a' nemici l'abbondanza de' comodi, per abbondar noi negli ornamenti del lusso e della bellezza? È vero ch'io ho dimostrato al libro I il valore intrinseco de' metalli essere stabilito sulla natura nostra, né essere chimerico o capriccioso; ma non ho io perciò detto che il grano e il vino non abbiano vero ed intrinseco valore: e potendosi aver abbondanza o dell'uno o dell'altro, sarà sempre meglio averla di questi che di quelli.


S'aggiunge a ciò l'impedimento che il soverchio danaro arreca o alla popolazione. Dove è molto danaro non può esser a meno ch'ei non sia vile, e che le merci e le opere perciò non sieno care. Hanno dunque a valere assai care le manifatture; e per consequenza estraendosi avranno poco spaccio là dove per la scarsezza della moneta rincresce assai ed è molesto un prezzo grande. Oltracciò gli stranieri eviteranno di stabilirsi in un regno denaroso, eccetto coloro che non vi recano altro che la nuda e squallida loro persona, e sono perciò ospiti non desiderabili; dolendo molto a chi ha qualche rendita venire in luogo ove per la grandezza de' prezzi si trova in un istante privo della miglior parte degli agi della vita. Gli stessi cittadini s'invogliano di lasciar una patria che gli costringe a vita così frugale, ed andarsene a divenir senza nuovi sudori più ricchi. Lo stato presente dell'Inghilterra e dell'Olanda sono un chiaro esempio del sopraddetto. Gli ordini del governo inglese sono attissimi a far entrare in Inghilterra immense somme di denaro; non curando essi l'alto prezzo de' viveri e del grano istesso, purché se ne estragga sempre, e se ne venda a' popoli convicini. Gli effetti di sì fatti ordini sono stati, che la popolazione non è cresciuta in Inghilterra quanto poteva, stante la venuta di pochissimi forestieri. Il più degli Ugonotti discacciati di Francia, dopo riempiuta l'Olanda hanno inondata la Germania, evitando la più vicina Inghilterra, ove non si assicuravano poter vivere. Moltissime arti, come è la stampa, hanno diminuito; non potendo per una parte gl'Inglesi vender i libri a basso prezzo; non volendo gli stranieri per l'altra comperargli sì cari: e se non fosse l'eccellenza delle manifatture, niente di quanto dall'Inghilterra viene sarebbe comperato. Da tutto ciò è venuto che l'Olanda, gli ordini della quale sono più atti a richiamar gente che metalli, s' è popolata incomparabilmente più dell'Inghilterra, ed ha mostrate forze proporzionatamente assai maggiori. Finalmente gli stessi Inglesi provando maggior piacere a viaggiar da ricchi che a vivere in patria da poveri, co' viaggi che fanno hanno irreparabilmente aperta una porta allo scolo di tante loro ricchezze.


Dunque, conchiudendo, la base d'ogni buon governo non è quella del Muratori, ma questa, che s'ha da nuotar nell'abbondanza de' viveri, e non dell'oro; che s'ha da lasciar uscire il meno di gente che si può, farne venire il più che si può, e godere in vedersi stretto dalla calca de' compagni e de' concittadini. Dunque tu vorresti, mi chiederanno molti, non mandar fuori vettovaglie a vendere? Rispondo, ch'io vorrei se ne raccogliessero quante più ne può il terreno produrre: vorrei poi che noi fussimo tanti, che non ne restasse neppure una libbra da mandar fuori. Felice quel governo ove il nutrir la prole non è dispendioso, venirvi ad abitare è desiderabile, trovarvi a vivere facile, partirne doloroso.


Che dirò ora del rammarico di tanti in veder non liquefatti i ricchi metalli de' nostri utensili, e de' sacri arredi? Dirò ch'ella è una vile e mal consigliata avarizia mista con poca religione. Vero è che, siccome io biasimo l'accrescimento della moneta nostra, con infinitamente maggior ragione biasimerei l'accrescimento di tanto metallo stagnante; ma il tenerne molto consegrato al sagro culto, e molto all'ornamento ed alla magnificenza non è sempre biasimevole.


Intorno allo scavare le proprie miniere sono da aversi presenti all'animo queste savie parole di Gio. Locke: ((È osservabile che quasi tutti i paesi ripieni dalla natura di miniere sono poveri; impiegandosi tutta la fatica e distruggendosi gli abitatori nello scavamento e nel purgamento de' metalli. Quindi la savia politica cinese ha vietato il lavorarsi le proprie miniere. Ed in fatti l'oro e l'argento scavati non ci arricchiscono tanto, quanto gli acquistati col traffico. Non altrimenti che chi vuol far traboccar il bacino più leggiero delle bilance, se in vece d'aggiunger nuovi pesi alla parte più vota, ve gli trasporterà dalla più carica, colla metà della differenza ei l'otterrà. La ricchezza non è l'aver più oro; ma l'averne più in comparazione al resto del mondo. Né sarebbe un uomo d'un grano più ricco, se raddoppiatasi colla scoverta di miniere nuove la quantità della moneta del mondo, anche la sua si raddoppiasse)).


Che s'egli è inutile scavar le proprie miniere, non potrà non essere dannoso combattere per occupare e togliere violentemente ad altri quelle che non converrebbe usare nemmeno a coloro cui la natura l'ha benignamente donate. Se si conoscesse il vero e grandissimo valore d'un uomo, si vedrebbe quanto è gran pazzia e grave perdita distrugger uomini a conquistar metalli. Secondo il calcolo da me fatto di sopra, un uomo si può valutare per un capitale di 1.200 ducati almeno: un soldato poi, che è un uomo giovane, ed in una età la più propria ad esser utile altrui, può valutarsi almeno 2.000. Veggasi ora se una vena di metallo, che costi la perdita d'una battaglia, è a buon mercato o a prezzo caro comprata. Ma io fo male a voler ragionar di sì fatte cose. È ordine della natura che vi sieno le guerre, dovendo esservi il principio di distruzione per potervi esser quello della nuova produzione: e quando gli uomini non si disputeranno l'acquisto de' corpi più belli e luminosi, si contrasteranno i titoli, le preeminenze, i colori delle imprese, la forma de' vestimenti, e quanto nelle voci o nelle idee v'è di meno reale ed importante in natura. Meglio è dunque che io mi rivolga a dimostrare quanto sia piccolo utile tenere in esercizio la zecca, contro al consiglio di molti, che forse a darlo sono stati spinti da privato occulto interesse.


Per due fini suole esser consigliato che si zecchi nuova moneta, o per guadagnarvi il principe, o per riempier di moneta lo stato; de' quali sentimenti l'uno è vile, e l'altro è falso. E volendo discorrer prima di quello, dico: che ne' secoli barbari, quando delle piccole e disputate rendite niuna ne aveano i sovrani migliore della zecca, fosse questa per guadagno esercitata, era lodevole, o almeno perdonabile; ma che a' dì nostri si siegua a pensare così, non può essere attribuito ad altro se non che a un moto che per una antica impressione datavi meccanicamente ancor dura. Il dritto della zecca conviene che sia il meno che si possa grande; e quando egli è del 2 per 100 è giusto assai. Con esso dunque in un milione di ducati n'acquista un principe venti mila: acquisto a' nostri dì poco considerabile per un principe che povero assai non sia. Che se da tal guadagno si toglie la spesa del trasporto de' metalli, e il guadagno che v 'hanno a fare i provveditori di esso, egli resta anche di molto minore. La zecca non può dare impiego e nutrimento a più di 200 persone: adunque non è degna della cura del principe una manifattura che a lui rende sì poco, a' suoi popoli niente; essendo 100 uomini riguardo a tutto uno stato un vero niente. Né l'esempio della sapienza veneta merita opporsi a ciò ch'io dico; avendo i Veneziani il maggior guadagno dalla ignota tempra che danno all'oro, non dalla zecca: ed io son persuaso che s'essi temprassero l'oro, e poi come mercanzia lo rivendessero in verghe, n'avrebbero frutto maggiore. Degli altri stati poi l'esempio non mi fa forza nessuna: poiché gli uomini piuttosto imiteranno servilmente un'operazione altrui inutile ad essi, e talor anche dannosa, che non pensarne e suscitarne una buona. E che ciò ch'io dico sia vero, si può conoscere facendo questa considerazione. La spesa di trebbiare il grano col calpestio delle cavalle, come in gran parte del nostro Regno e d'Italia si costuma, quando si computi il danno della morte e dell'aborto delle giumente, il danno de' polledri, l'erba che da loro inutilmente si pasce, ed ogni altro, si può valutare la quarta parte della spesa totale d'una raccolta; che è quanto dire del nostro Regno due carlini il tumolo. Negli anni propizi sono fra noi dalle cavalle pestati almeno cinque milioni di tumoli: dunque una macchina che senza animali trebbiasse, sarebbe, se questa si trovasse, un acquisto d'un milione di ducati l'anno; e a più di ventimila persone si renderebbe un mese di tempo libero ad occuparsi in travaglio meno penoso: oltre all'immensa quantità di terreno che avanzerebbe non pasciuto da animali, che hanno da essere consecrati ad un'opera tanto per loro mortifera e fatale. Ora io disfido tutti, che mi si mostri alcuno scrittore di quanti al pubblico bene si dicono applicati, il quale in vece di consigliare un guadagno così piccolo, come è la zecca, n'abbia mostrato uno così grande, quale è il sopraddetto, ed altri di lui non minori, che vi sarebbero in gran copia da poter additare. Felici gli uomini s'e' conoscessero essere stati tutti dalla natura creati agricoltori, ed essere stata ogni loro ricchezza e comodità sotto le zolle della terra appiattata; che non cercherebbero con metalli, con voci, con carte e con altri ordigni misteriosi dar corpo reale a quel niente che non gli può saziare.


L'altra creduta utilità della zecca è l'abbondanza della moneta che da essa si aspetta e si spera. Un tale inganno non si può meglio dileguare, che con mostrarne il ridicolo col racconto d'una novella. Un uomo una volta vedendosi poverissimo, né piacendogli accagionarne i vizi e la dappocagine sua, credette esserne la colpa l'abitar egli così discosto dalla zecca, che non vi era passato mai per vicino. Quindi repentinamente mutata abitazione s'appigionò una stanzina pochi passi lontana dal luogo ove era il gran torchio; e volentieri tollerò tutto il dì la molesta scossa e lo strepito de' colpi di quello, sperando che al far della notte scolando la moneta ne venisse il suo pavimento inondato. Ma avendo la notte inutilmente vegliato in aspettare quel che gli avea tanto fastidio apportato il dì a sentir coniare, cruccioso si levò, e andato a vedere come la moneta non era più nella stanza del torchio, seco stesso ammirato non intendeva come potesse avvenire che la moneta uscendo di quel luogo e spandendosi fra '1 popolo sfuggisse la sua casa, che pur era così dappresso al fonte, e poi le case de' ricchi mercanti con tanto empito andasse ad allagare: del che piangendo e bestemmiando la sua rea sorte malediceva. U n vecchio uomo che gli era daccosto a pietà mossosi, e udita la cagione de' suoi lamenti, persuaselo alla fine essere la moneta che si zecca diffusa nel popolo non versandola e rotolandola nelle strade e nelle piazze, ma per assai diversi canali; de' quali siccome molti imboccano a' mercanti, molti a' ministri del sovrano, e molti ad altra gente, così sono costoro variamente arricchiti. Allora quel disgraziato, accorto del suo inganno, si dolse più amaramente di prima, vedendo che delle monete egli sentiva tutto l'incommodo che danno in coniarsi, niuno de' diletti che danno nel consumarsi.


Lo stesso si ha da dire delle città che hanno zecca; potendo avvenir benissimo che una città poverissima abbia la maggiore zecca del mondo; e se i cittadini non la saccheggiano, potranno talora essere in istato di non avere affatto denari. Bisogna vedere per quali canali viene l'oro alla zecca, e per dove scorrono poi le monete, ed imboccano: e sempre, quando l'oro non è comprato con merci del paese, la moneta non potrà restarvi giammai.


Per una consimile cagione le guerre, che riempiono di danaro un paese, non l'arricchiscono mai; e indi a pochi anni si trova il danaro essersi raccolto nelle provincie vicine a quella che, per essere stata la sede della guerra, sebbene fosse la prima raccoglitrice, pure s'è impoverita e distrutta. La cagione è che un uomo il quale ha 50 botti di vino, 100 tumoli di grano, e 10 ducati, è più ricco di chi ha 30 ducati, e non ha vino né grano. È impossibile che un esercito paghi tutto il danno ch'ei fa; e perciò sempre più toglie che non rende. Di quella moneta che dà si ricompra parte di quanto l'esercito ha consumato: a voler riaver tutto il perduto, bisogna spendere anche l'antico denaro che s'avea in mano.


Ora giacché di tutti i desideri umani, savi, o sciocchi che sieno, v'è sempre la cagione, ed è utile assai il saperla, io voglio ricercare donde sia provvenuta tanta brama di moltiplicare i metalli preziosi negl'Italiani, e di ragionar tanto di quel commercio ch'essi hanno quasi tutto perduto. Per intender l'origine di ciò, si ha da avvertire esservi due sorti di principati, così come vi sono due classi d'uomini in ogni principato. Altri uomini coltivano, producono, lavorano i viveri e l'altre merci: altri non ne fanno alcuna nuova, ma alle già fatte danno moto. Io chiamo i primi coltivatori, i secondi mercanti. Quelli hanno poco bisogno di denaro, ma molto de' materiali e del terreno per produr le ricchezze: questi hanno per lor materiale il denaro. È loro unica cura richiamarlo tutto nelle mani loro, acciocché somministrandolo a' coltivatori, ne traggano lucro, e abbiano le mercatanzie a prezzo vile in mano. Il non aver bisogno fa poi che le ritengano finché rincariscano pazientemente. Sono perciò essi poco utile parte dello stato, e talor anche dannosa. Lo stesso è delle nazioni. Quelle che, come è la Francia, la Spagna, e il più dell'Italia, sono abitatrici di vasti e fertili terreni dalla natura arricchiti d'ogni suo dono, non han bisogno di molto denaro per vivere felicemente; né il loro commercio ha da esser altro che l'industria della coltivazione e delle manifatture. Altre nazioni sonosi ritrovate ristrette in luoghi o alpestri e sterili, come è Genova e gli Svizzeri, o in siti paludosi come Venezia e l'Olanda. Quivi l'avara natura niega loro tutto; e quindi è che divenuti i bottegai ed i mercanti dell'universo, fanno su i regni grandi, che sono loro dappresso, quel che i mercanti usano cogli agricoltori. Hanno perciò prudentemente tali repubbliche cercata ogni via di moltiplicare il denaro, l'acquisto del quale era per esse quasi una conquista di nuovi terreni: ma saranno sciocchi que' popoli che vivendo in mezzo a' terreni di fertil natura, e coltivandoli male, mossi da invidia puerile, cercheranno imitare disadattamente coloro che sono in assai diversa situazione. Il pareggiare altrui non s'ottiene sempre con imitarlo e seguirlo; e perciò sconsigliatamente è proposto agl' Italiani accumular denaro, quando ubbriacati nell'agresto oltramontano, lasciano i loro felici campi privi di piante e di cultori.


Restami solo a dire prima di terminare dell'introduzione e corso delle monete d'altro principe che si suole in molti stati dare. Intorno a che dico che quanto alle monete d'argento o si parla di principati grandi, o di principati piccoli, come sono i Ducati d'Italia, gli Elettorati di Germania, ed altri. Ne' primi è meglio sempre escluderle affatto: ne' secondi è troppo molesto al commercio de' cittadini, de' quali moltissimi sotto diversi principi quasi egualmente vivono. Io stimerei però conveniente che la moneta propria non si facesse mai eguale in valore alla straniera. Parrà certamente strano ch'io pensi così, sembrando anzi conveniente evitare una disparità sempre fastidiosa. Ma io avverto che una moneta straniera ammessa nello stato porta sempre con sé rischio, che quelle mutazioni e danni ch'essa soffre nel suo proprio, non le faccia provare ancora al paese ov'è ricevuta. Perciò gioverà sempre non lasciar fare al popolo connessione d'idee, e riguardar come eguali in tutto due monete, d'una sola delle quali è il principe mallevadore, dell'altra no. Il consumo, il tosamento, la mutazione del valore potranno indurre disegualità di monete, quanto irreparabile dal sovrano, tanto calamitosa allo stato.


Dell'oro poi è bene che da per tutto ei si prenda a peso; e quanto al valore non ne abbia altro che dal consentimento comune. È la libertà un dono così prezioso del Cielo, che senza somma e gravissima causa e necessità non l'hanno mai i principi a togliere o a restringere ad alcuno; e perciò l'introdurre oro, e valutarlo quanto al padrone più piace, non potendo nuocere, non ha da esser vietato. L'estrarlo, se si convenga o no, sarà trattato nel seguente capo.

CAPO TERZO


Del vietar l'estrazione della moneta.


Di tutti i cattivi consigli, che gl'ingiusti estimatori della moneta hanno a' loro principi dati, niuno è stato tanto applaudito ed universalmente abbracciato quanto il vietare con gravi pene l'estrazione della moneta: e pur niuno ve n'era di questo peggiore. Vedesi ciò stabilito in tutti gli stati non meno barbari che culti; e, quel che è più strano, in alcuni governi ancora, che oltre alla lode di sapienza civile meritamente ottenuta, hanno necessità d'estrarre que' metalli de' quali fanno coll'Oriente commercio. Pure è cosa chiara essere la legge che vieta l'estrazione inutile, perché non è osservata: inutile, perché quando i sudditi l'osservassero converrebbe al sovrano violarla; e quando amendue s'astenessero dall'infrangerla potrebbe esser talvolta perniciosa.


E quanto al primo. Siccome è negli animi umani altamente fitto che ciascuno sia delle cose sue arbitro e signore, ogni legge che di tale autorità vorrà spogliarlo, sarà sempre calpestata: e se il violarla sia facile, s'abbia per sicuro ch'essa rimane infruttuosa. Ciò s'intende quando il violarla non si conosca esser contrario alla ragione ed alla naturale giustizia; perché quelle leggi che hanno per compagne a' divieti loro la virtù e la religione, sono non meno ottime che potentissime. Ma se riguardano cose nelle quali non si vede connessione colla religione, è certo ch'esse saranno disprezzate. E perciò io penso potersi tutte le massime del buon governo ridurre a questa sola; che mai non s'abbia da vedere in un principato duellare insieme la sola legge che vieta alcuna cosa, col guadagno che la consigli. Né si richiede che l'utile sia grande assai, essendo sempre utile e piacevole all'animo nostro l'esercizio d'un atto, qualunque siesi, di libertà.


È manifesto poi quanto sia facile eludere la proibizione dell'estrazione, non meno col trasporto del metallo in contrabbando, che per occupare piccolissimo luogo è molto agevole, che colle lettere di cambio, contro le quali non vale arte alcuna od ingegno. Nel 1708 sotto il governo alemano fu nel nostro Regno (il denaro di cui era tutto assorbito dagli stranieri) promulgata una prammatica, di cui io non credo sia stata altrove fatta la simile giammai. ((Fu ordinato e comandato a qualunque persona di qualsisia grado, stato e condizione, ancorché privilegiata, che non ardisca né per sé, né per interposta persona diretta o indirettamente estrarre da questo Regno alcuna sorte di denaro, in qualunque quantità, spezie, o moneta di qualsisia dominio per trasportarlo in Roma o in altro qualsisia luogo dello Stato Ecclesiastico, niuno eccettuato, per qualsisia causa, o pretesto, benché privilegiato)). E fu a' contravventori posta la pena del quadruplo, ed altre non meno gravi. S'aggiunse poi: ((Sotto le medesime pene comandiamo ed ordiniamo che niuna persona di qualsivoglia grado diretta né indirettamente ardisca ricevere, né far pagar denaro di sorte alcuna per qualunque causa, come sopra, affine di corrispondere nella città di Roma, o altri luoghi dello Stato Ecclesiastico, tanto per ordini, quanto per lettere di cambio, benché per via di giro di Genova, Livorno, Piacenza, Venezia, o altre piazze, e per la giustificazione delle contravvenzioni suddette ordiniamo che si debbano attendere le pruove anche privilegiate)). È strano che un editto tale producesse non molto strepito, potendo egli benissimo eguagliarsi, attendendo ogni sua circostanza, a quello che i Romani usarono, acqua et igni interdicere; ed essendo quanto agli effetti temporali senza comparazione maggiore di qualunque interdetto o scommunica che dallo Stato Ecclesiastico al Napoletano potesse esser fulminata. Vero è che subito un tale ordine, conosciutosi ch'e' non potea senza cambiamento di religione sostenersi, fu rivocato quanto a quella parte che riguardava le lettere di cambio, e confirmato quanto all'altra. Ma quando ben si consideri si troverà essere stato più savio il primo editto che il secondo: perocché quello, sebbene contenesse grandi assurdi, pare però che mostrasse essersi conosciuta questa verità, che il divieto dell'estrazione colle lettere di cambio era eluso e schermito. Il secondo editto scoprì che per impeto di collera erasi fatto ciò che parea fatto per maturo consiglio, e rivocò quella parte che bastava a render vana l'osservanza dell'altra. Il vero era che conveniva rivocarle tutte due, ed alla estrazion del denaro dare assai diverso compenso.


Ma quando i sudditi (il che non sarà mai) ubbidissero al divieto del trasporto religiosamente, allora al principe converrebbe trapassarlo: perché col vietar l'estrazione della moneta non si ottiene già che la quantità delle merci proprie, la vendita delle quali produce le lettere di cambio, s'aumenti. Dunque ponendo che il Regno nostro estraesse quattro milioni di ducati di valore di mercanzie, è chiaro che senza trasgredir la legge possono gli abitatori suoi comperare con lettere di cambio altri quattro milioni di ducati di merci straniere; e restano così estinte tutte le lettere di cambio del Regno. Ora se uno riguarda quanta spesa fuori del proprio paese conviene ad ogni principe fare, troverà ch'ella è molta: e quanto al nostro re io credo che computando la spesa di tutti i suoi ministri nelle corti straniere, quella de' Presìdi di Toscana, l'uscire delle sue navi in corso, ed altre molte, sorpassi mezzo milione di ducati l'anno. Sicché una tanta quantità di denaro ha da uscire per volontà del principe ogni anno dallo stato; e non potendo esser mandata in rimesse e cambiali, che io ho mostrate potersi senza delitto estinguer tutte dal popolo, converrà mandarsi in contante: e così quel divieto che il principe fa, è da lui medesimo in somma strabocchevole violato. Sicché quando la vendita che un regno fa delle merci sue natie, è maggiore della compra dell'estranie, il divieto è inutile, non mancando mai lettere di cambio a chi le domanderà; s'ella è eguale, è forzato il principe a commettere ciò che i suoi popoli non osano fare; quando è minore, saria dannoso ed al popolo ed al principe non infrangere la legge: il che è quello che vengo ora, secondo promisi, a dimostrare.


E per procedere ragionando or dinatamente: qualunque paese che ha moneta o la trae dalle miniere sue, o la compra dalle altrui. Chi la scava, avendo sempre maggior copia di metallo che non bisogna al suo commercio, custodirebbe insensatamente il suo superfluo, se vietasse l'estrarre il metallo; e sarebbe biasimevole non altrimenti che se noi in un anno di somma fertilità vietassimo affatto l'estrazione del nostro grano. Que' paesi che la comprano, l'estraggono, sempre ch' essa diviene meno necessaria a' possessori suoi di ciò che comprano. Accade ciò in due modi; quanto è a dire o per grande opulenza, o per gravi calamità. Nel primo stato o comprano merci mobili, che sono ornamenti del lusso, o si comprano stabili nelle altrni sovranità. La compra delle merci di lusso, poiché essa è effetto di ricchezza, non può essere che divenga causa di povertà: e perciò non conviene al principe vietare che i suoi sudditi di quel penoso sudore, che costa l'acquisto del denaro, traggano gl'innocenti piaceri che sono la sola mercede di esso. Ma quanto all'impiegare il denaro in fondi stabili fuori dello stato, essendo materia gravissima, ne disputerò appresso diffusamente.


Che se il denaro esce dallo stato impoverendolo, pare che allora sia buono e profittevole non farlo uscire: e da così fatto timore sono stati unicamente mossi i consiglieri del divieto dell'estrazione; facendo vieppiù conoscere essere sempre la superficiale e distratta considerazione la madre de' gravi errori e delle opinioni che più alla moltitudine son grate. Innanzi di proibir l'estrazione era cosa prudente il riguardare s'essa fosse cagione o effetto dell'impoverire: e secondo che discoprivasi o l'uno, o l'altro, conveniva regolarsi diversamente. Il denaro mandato via può essere cagione di povertà quando è donato prodigamente; ma quando egli è cambiato con mercanzie è conseguenza di qualche calamità. Quando un luogo non è afflitto da disavventure, egli ha sempre del sovrabbondante da estrarre. Dalla vendita di esso nascono i crediti e le offerte delle lettere di cambio, colle quali si comprano le merci straniere senza aver bisogno del contante. Le calamità altro non sono che la mancanza delle proprie ricolte. Ora essendo ordine della natura che vi sieno perpetue vicissitudini di fertilità e di scarsezza, e che con l'una si dia riparo all'altra, qual cosa più giusta che quel ricco metallo, comprato colle superflue merci nostre, sia rivenduto quando mancano puranche le necessarie? Quando dalla Provvidenza sarà restituita l'abbondanza, senza dubbio il primo a rientrar nel paese sarà il metallo. E certamente siccome le conseguenze de' morbi per lo più sono movimenti che la natura, secondo le sue forze l'aiutano, fa per sanarsi; così l'uscir del denaro è una medicina almeno presentanea delle sventure. Se manca a noi il grano delle terre nostre, estrarre il denaro a comperar l'altrui è rimedio della fame; ed o s'ha da far comestibile l'oro, o s'ha da fare uscire. Quando nelle disgrazie degli stati si salva la vita agli abitatori, è in salvo tutto; che altro di danno non hanno le calamità, se non la spopolazione, la quale apporta danno ed a coloro cui toglie la vita, ed a quelli a' quali misera e scompagnata la lascia. E perciò l'uscire il popolo è il male; l'uscire il denaro, se giova a ritenere il popolo, è sommo bene. Colui dunque, il quale dicesse doversi per impedir l'estrazione della moneta ordinar buone leggi, costruir lazzaretti, formar valorose milizie, crear magistrati prudenti, e coltivare industriosamente le terre, direbbe i veri e certi rimedi dell'estrazione: imperocché dovunque è pace, salubrità, virtù vera e libertà, non può essere che non sienvi le ricchezze e la felicità. E sebbene tali ricchezze, quando saranno ad un dato termine pervenute, s'apriranno da per loro stesse invisibili e nuovi meati, onde scorrere ed allagare altrove; questo che nasce dalla forza d'equilibrio, ch'è in ogni cosa, non merita riparo, né se volesse pur darsegli ne ammetterebbe alcuno. Il che appunto conviene si tratti da me nella seguente parte di questo capo.


Considerazioni sull'impiego del danaro fatto da' cittadini in compra di stabili soggetti ad altro principe.


Per una ragione tutta contraria alla calamità esce similmente il danaro da uno stato; quanto è a dire per soverchia prosperità ed opulenza; la quale essendo stata generata da industria e parsimonia grande, ed avendo fatta crescere la ricchezza de' cittadini oltre a' termini convenienti alla patria ove sono nati, gli costringe ad impiegar fuori il danaro, e così mandarlo via. Vedesi ciò principalmente nelle repubbliche; e di tutte niuna più di Genova è stata fertile di somiglianti esempi, avendo popolato con famiglie sue e l'Italia e la Spagna, que' regni medesimi donde aveano i Genovesi tratte le ricchezze. Per quali cause avvenga così, non sarà inutile il ricercarlo prima d'entrare a dire s'ei sia male, o no, e come e quando si convenga sanarlo.


Sono le repubbliche ordinate più ad occupare ricchezze mobili che terre; e più a far commerci che conquiste; perché le manifatture e le navigazioni fondandosi sopra numerose società richiedono tranquillità e sicurezza stabile e lunga: e sebbene negli stati monarchici la virtù del principe possa dar ozio, pace e sicurtà, pure ella non può darla durevole oltre alla vita di quel principe, sempre incerta tanto, quanto è dubbia e non conosciuta l'indole e i costumi del suo successore. Ma nelle repubbliche essendo il principato costituito da' cittadini medesimi, si può dire che il commercio sia del principe, e ch'egli sé medesimo assicuri. Oltre a ciò la vita de' repubblicani è più frugale, come quella di coloro che non avendo l'esempio del sovrano e della reale famiglia che ispiri fasto e magnificenza, sono meno incitati a spendere, e talor anche per legge forzati a vivere con modi umili e parchi, talché non richiamino l'ammirazione e l'affetto sempre pericoloso della moltitudine. Ma a guerreggiare, essendo il movimento delle repubbliche lentissimo, elle sono pigre, e perciò disadatte assai: e quantunque si possa addurre in contrario l'esempio della Repubblica romana; chiunque avrà considerata la forma di quel governo, conoscerà essere stata Roma non una repubblica, ma un campo di soldati; come ne' tempi più a noi vicini sono stati i Mammalucchi, gli Arabi sotto i Califi e i Soldani, i Tartari sotto Jen-ghiz-kan, e i Turchi: e perciò il loro commercio erano le prede, e l'arti loro la strage. Ma tutte l'altre repubbliche, o non hanno acquistato, o (come è stato de' Veneziani ne' tempi de' nostri padri) col danaro hanno raccolte le milizie, nutrite le alleanze, occupate le terre, vinte le giornate, e fatte le paci. Nel modo stesso, fuorché con minore prudenza, le altre città italiane sonosi governate; e quelle terre, che aveano acquistate con l'oro, non hanno poi sapute difendere col ferro. Ora ritornando al primo. discorso, quando i cittadini per le sopraddette cagioni sono straricchiti, e i confini dello stato non sono ampliati, volendo essi ritirare quel danaro che nel commercio correva; e sia che l'età avanzata, o la stanchezza dagli affari ve gli spinga, o che vogliano stabilire le ricchezze della famiglia loro ed assicurarle dalla minorità, o dalla amministrazione donnesca, o dalla prodigalità degli eredi, ricercano fondi stabili ne' quali possano convertirlo: e se la patria non ne offre alcuno disoccupato, è inevitabile che sieno acquistati quelli de' principati convicini.


S'inganna però chi crede potersi da tale derivazione di ricchezze nuocere al commercio e impoverirlo. Esce è vero il danaro da' canali del commercio, ma n'esce a guisa d'inondazione e di piena, quando la strettezza del letto del fiume non la può più contenere. Finché un negoziante lo può, gli sarà sempre grato ritenere il danaro nel traffico, ove è guadagno maggiore: e l'avidità del guadagno non è negli uomini né dall'età, né da' grandi acquisti saziata o diminuita. Ma quando il canale di qualche parte di commercio non permette maggiori somme di denaro, fa la moneta quasi un allagamento, ed esce, e ristagna nelle casse de' mercatanti, finché non sia altrove derivato. Tanto è dunque possibile che tali impieghi offendano il commercio, quanto che lo scolare l'acque spaziate possa minorare il corpo dell'acque d'un fiume.


Né è minore inganno il credere che potesse giovare ad nna repubblica il far restar chiusa e sepolta nelle case private la moneta de' suoi cittadini: poiché, lasciando stare che una sì fatta legge non sarà mai ubbidita, io credo ch'ella non gioverebbe punto, come si ha opinione, a fare che la repubblica trovasse prontamente raccolte grandi somme ne' suoi bisogni. E certamente quando è vietato il godere delle ricchezze faticosamente acquistate, si svoglia ognuno dall'acquistare: e siccome i danari sono una ricchezza (secondo dicono le scuole) in fieri, non in facto esse, non apportando comodità, non saranno tanto desiderabili. Così avverrà che la repubblica perderà le arti, le manifatture, il commercio; né sarà più per mare potente, né rispettevole per le ricchezze sue. In oltre i tesori che i cittadini conservano, nelle calamità spendendosi tutti insieme diventeranno abbondanti, e vili, e non compreranno nemmeno la quarta parte di quelle merci che hanno valuto. In fine essendo l'avarizia inimica alla virtù militare, come quella ch'è sorella della timidità, accaderà sempre che le ricchezze, delle quali si è crudelmente proibito a' possessori godere nella pace, saranno nella guerra in un momento tutte dagl'inimici rapite e godute.


Ma se sono erronee le due sopraddette opinioni, non è già errore il credere che quella repubblica, di cui molte ed illustri famiglie escono fuori a stabilirsi, perderà sempre gran parte della sua libertà. In niun governo ha tanta parte l'interesse privato alle pubbliche determinazioni, quanto negli aristocratici: e siccome a molti rincrescerà muover guerra a quel principe che gli può in un tratto spogliare ed impoverire, sarà la repubblica sempre avversa dal guerreggiare. Quella repubblica che non è pronta e risoluta a combattere, conviene che sia inclinata a servire: e perciò gl'impieghi fatti da' repubblicani negli stati ove hanno fatto commercio, è una conquista che questi stati tornano a fare delle ricchezze che sembravano rapite loro. Adunque se un principato vuol restar libero non faccia straricchire i sudditi suoi.


Ma per l'altra parte se noi riguarderemo che gli statuti, i quali non sono ordinati a render dolce la vita nostra, sono più speciosi che buoni, disprezzeremo le leggi di Licurgo e di tanti che l'hanno imitato, che rendono libera o temuta, ma infelice e misera una società, ed ameremo che gli uomini, ovunque abbiano avuto in sorte di nascere, possano innocentemente affaticarsi, ingrandirsi, e traspiantarsi poi dovunque vogliano a godere delle fatiche: e intanto prenda il Cielo in cura, come è dovere, i regni e le potestà. Una libertà ostinata custodita con costumi feroci e crudeli, come usarono gli antichi popoli, a me sembra peggiore della servitù: né gli elogi lusinghieri degli scrittori m'abbagliano tanto ch'io non conosca essere incomparabilmente migliori i tempi nostri, in cui i popoli sudditi, per la dolcezza de' costumi e per la santità della religione, sono più felici delle antiche nazioni libere sempre intrise di sangue o domestico o straniero.


CAPO QUARTO


Delle rappresentazioni della moneta che hanno corso nell'umano commercio.


A voler diffusamente trattare questa parte, che riguarda le rappresentazioni della moneta, e che per la varietà e grandezza degli argomenti suoi, non meno che per la oscurità misteriosa in cui è ritenuta, si può giustamente dire grandissima, converrebbe comporre un'opera almeno eguale alla presente. Ma poiché ella non è stata il mio primo istituto, e solamente vi si può dire attaccata, perciò ne discorrerò con quella brevità che mi sembra più conveniente.


Le rappresentazioni della moneta altro non sono che manifestazioni d'un debito. Dalla difficile imitazione nasce la loro sicurezza; dalla fede e virtù del debitore la loro accettazione. È perciò il loro valore composto dalla certezza del debito, dalla puntualità del debitore, e dalla veracità del segno che si ha in mano. Quando tutti i tre sopraddetti requisiti sono al sommo grado sicuri, la rappresentazione eguaglia il valore della cosa rappresentata; giacché gli uomini tanto stimano il presente, quanto il futuro, che certamente ad ogni atto di volontà divenga presente. Perciò tali rappresentazioni, trovando agevolmente chi le prenda, diventano monete, che si potriano dire in tutto eguali alle vere, se non fosse ch'elle divengono cattive e false subito che perdono alcuno de' sopraddetti attributi, i quali non essendo intrinsechi alla natura loro, non vi stanno così fermi addosso come la bellezza e lo splendore a' metalli componenti la vera moneta. Perciò dopo che io avrò numerate tutte le sorti di rappresentazioni, e narratane l'origine e l'utilità, mi restringerò a dire come s'abbia a fare per sostenerle in credito in modo tale che, divenute perfette immagini della moneta, possano al pari di essa girare.


Essendo, come ho già detto, necessario alle rappresentazioni l'esser sicure dal contraffarsi, hanno i privati usato d'apporre nella dichiarazione de' debiti loro il carattere della propria scrittura; il quale non solo è con maravigliosa varietà diverso in ognuno, e con pari meraviglia sempre uniforme in ciascuno, ma è in oltre difficilissimo ad essere da altri imitato. Ma i principi hanno variamente usata o la scrittura di qualche loro ministro, o il sigillo, e l'arme regia improntate sopra carte, o cuoio, o basso metallo; donde sono nate le monete, dette di necessità. La sicurezza di queste ultime è fondata unicamente sul terrore delle leggi che ne vietano l'imitazione, per altro facile; e perciò solo per breve tempo hanno potuto servire. Dell'istessa classe sono le monete obsidionali battute da' comandanti delle piazze assediate, quando mancato il danaro, ed interrotta ogni comunicazione esterna, è convenuto dispensare a' soldati in vece di moneta segni e promesse certe di pagamento, subito che le angustie dell'assedio si fossero sgombrate. Di tali monete le più antiche che si conservino furono coniate dentro Pavia e Cremona assediate da Francesco I nel 1524 e nel 1526. Ne furono poi battute in Vienna stretta da Solimano II, e da' Veneziani cinti d'assedio in Nicosia capitale di Cipro nel 1570 da Selimo II. Finalmente nelle ostinate e calamitose guerre della Fiandra divennero frequenti, non meno per la lunghezza degli assedi sostenutivi che per la mancanza del danaro quasi continua nell'un campo e nell'altro: e furono tantoppiù volentieri accettate da' soldati, quanto il furore e l'ostinazione facea gradire ogni estremo consiglio più che la concordia e la servitù.


Contro a ciò che ho detto di tali monete, ch'esse non possino usarsi, fuorché per poco tempo, si potrà opporre l'esempio delle colonie inglesi d'America, dove corre da moltissimi anni solo moneta di carta, senza che ne sia diminuita la stima. Siccome un fatto tale è stranissimo, merita essere prima dimostrato vero, e poi spiegatane la cagione. Nella relazione del viaggio all'America Meridionale, lib. 3, c. 9, si narra di Boston e della Pensilvania che, ((essendo queste colonie così grandi, ricche e popolate, pure non usano monete di metalli, ma di carte di figura simile alle monete ordinarie. Sono fatte di due pezzetti di carta rotondi attaccati insieme, e sigillati coll'armi dell'Inghilterra: e di sì fatta guisa sono tutte le monete dal più basso sino al massimo valore; e con esse si traffica senza aver bisogno né d'argento né d'oro. Secondo poi si consumano, o si rompono, evvi un luogo, che è quasi la loro zecca, ove s'improntano le nuove, e sono poi in ogni città, o terra altri luoghi, ove si distribuiscono, permutandosi le nuove con le vecchie malconce che vi si lasciano, e sonovi brugiate. Nel che è maravigliosa la fede e lealtà de' ministri, che non commettano frode moltiplicando a loro pro sì fatte monete. Ma una cosa che pare tanto strana ed incredibile, cesserà d'esserlo a chi avvertirà essere state le colonie della Pensilvania in grandissima parte popolate da' Quackeri; tanto che con le leggi loro si reggono ancora oggidì e fioriscono. I Quackeri sono una classe di settari, che in mezzo a molti ridicoli e stravaganti riti, si rendono ammirabili per l'esattezza con cui osservano le leggi naturali, alle quali sono quasi superstiziosamente attaccati. Né furono bastevoli tutti i tormenti che si potettero in Inghilterra immaginare, a fargli giurare in un caso in cui le leggi di quel governo richiedeano il giuramento: tanto che fu forzato il Parlamento a dichiarare essere il semplice detto d'un Quackero eguale al giuramento solenne dato da chi non è di questa setta)).


Si è potuto adunque sostenere un impegno tanto arduo e difficile, I. Perché le colonie della Pensilvania hanno per confinanti i soli selvaggi, donde non temono contraffazione delle loro carte. II. Perché hanno commercio colla sola Inghilterra, sul quale possono benissimo attentamente vegliare. In fine, perché le azioni straordinarie, e che sembrano superiori alla forza umana possono ben essere dalla virtù consigliate; ma il solo fanatismo (misera condizione!) e l'impegno ostinato per qualche partito le può fare da tutti costantemente eseguire. Onde è che nelle false sette si sono vedute operazioni che i cristiani hanno ammirate, senza potere virtuosamente imitare. Sicché da' Quackeri non si può prender l'esempio delle monete di carta ad imitare.


Venendo dunque a ragionare delle diverse spezie di carte obbligatorie, dico che altre manifestano debito d'un privato, altre d'una persona pubblica; e tutte si possono dividere in fruttifere ed infruttifere. Delle carte de' privati non si parlerà qui; giacché non essendo le firme loro abbastanza conosciute, e molto meno le facoltà e l'onestà ch'abbiano, di rado accade ch'esse sieno accettate da altri che da' creditori diretti; e perciò non corrono come moneta. Dirò solamente delle carte esprimenti debito di persone pubbliche.


Hanno tutte queste carte avuta origine o da deposito, o da imprestanza fatta, o da unione di società; donde sono nati i Banchi, le rendite dette da noi con voce spagnuola arrendamenti, e le compagnie.


Cominciarono i Banchi dappoiché gli uomini per esperienza conobbero non essere i tre metalli bastanti a' grandi commerci e a' grandi imperi: essendocché lo stess'oro divenuto vile in confronto de' prezzi di molte merci, dava incommodo grande, e pericolo ad essere trasportato e trafficato. Quindi secondo la varietà de' costumi variamente si dette compenso a sì fatto bisogno. Dovunque era governo giusto ne' principi, e virtù ne' popoli, si pensò a rappresentar la moneta con segni che senza avere alcun valore intrinseco fussero però impossibili, o almeno difficili a contraffarsi. Dove la tirannia e la mala fede non permisero che si potesse riguardar come certa la possessione, qualora si possedeva un pegno sicuro della cosa pregiata, fu d'uopo appigliarsi a' corpi che contenevano un valore intrinseco tanto maggiore dell'oro, che in piccolo sito restringessero un grandissimo prezzo. Tali sono le gemme. Perciò in Oriente dove non sono né Banchi, né sicuri mercanti, usansi le gemme come monete; e que' che fra noi sono mercatanti di Banco, ivi sono gioiellieri. Ne' viaggi portansi gemme come noi portiamo lettere di cambio; e finalmente si può dire che usino le gemme più per moneta che per ornamento: conoscendosi ognora più vero ciò che nel I libro ho dimostrato, che la somma sicurezza è nel valore intrinseco, e il prezzo intrinseco e la stima è dagli uomini conceduta alla bellezza delle produzioni naturali. Sarebbe intanto un tal costume tollerabile in uno stato, s'ei non contenesse il danno gravissimo delle vaste quantità di merci che conviene mandare ne' regni ove raccolgonsi le gemme, a comperarle: e perciò è pregevolissimo frutto della virtù, che la sola fede dia valuta e tramuti in moneta preziosissima un foglio che non costa niente.


I primi Banchi erano in mano de' privati, presso a' quali depositavasi il danaro, ed erano da essi date le fedi di credito, e tenuti quasi que' regolamenti stessi che usansi oggi ne' pubblici Banchi. E siccome sono stati gl'Italiani non solo i padri e i maestri d'ogni scienza dopo la loro restaurazione, ma i maestri e gli arbitri del commercio; perciò in tutta Europa erano essi i depositari del denaro, e dicevansi banchieri. Ancor oggi la strada de' Lombardi è detta a Londra ed a Parigi quella ove s'uniscono i mercanti; e la piazza del cambio d' Amsterdam chiamavasi Piazza Lombarda: giacché i Veneziani, i Genovesi e i Fiorentini erano conosciuti sotto tal nome. Ma perché in que' secoli miserabili gli uomini né seppero camminare per le vie del dritto, né giudicare delle azioni altrui sulle regole del vero, furono da' Lombardi commessi una co' leciti molti illeciti commerci, donde furono confusi cogli usurai, e perseguitati non meno perché erano ricchi, che cattivi.


Non si può dubitare che tali Banchi fossero utilissimi e buoni; mentre i mercatanti senza pagar grosse usure trovavano quanto denaro volevano, e il denaro non si fermava ozioso nelle mani degl'inesperti a muoverlo e trafficarlo. Quindi era dagli uomini, mediante la fede e l'onestà, raddoppiata la moneta colla creazione d'un'altrettanta quantità di moneta di carte, che non costavano mercanzie mandate all'Indie, come i metalli preziosi. Ma essendo i mercanti in que' tempi sottoposti ad innumerabili disavventure non meno per l'avversità della sorte, che per la malignità degli uomini meno ricchi e più potenti di loro, avveniva spesso che fallendo si perdevano i crediti; e molti restavano poverissimi colle inutili carte di credito in mano. Perciò la Repubblica veneta imprima istituì un Banco pubblico, e fu poi nel 1609 imitata dalla città d'Amsterdam, e dopo da quella d'Amburgo. Nel regno di Guglielmo III in Inghilterra il tesoro reale, che essi dicono exciquier, cominciò a valere quasi come Banco pubblico, ove furono versate le ricchezze ch'erano prima in mano de' gioiellieri custodite. Finalmente nel 1716 Giovanni Law aprì in Francia la Banca Generale, di cui gli avvenimenti tragici e singolari saranno da me più abbasso rapportati. Anche in molti altri stati sonosi istituiti Banchi quasi in questi tempi stessi, ma di minore celebrità. La forma de' Banchi di Venezia, di Amsterdam e d'Amburgo è la seguente. In prima è permesso a ciascuno intromettere denaro nel Banco, del quale viene scritto creditore in un libro. Il pagamento si fa poi colla semplice mutazione del nome del creditore in esso libro, con che resta trasferito il dominio. Per evitare le mutazioni della moneta e la varietà de' prezzi, si è stabilito che il denaro si ricevesse secondo quella quantità di fino metallo ch'egli ha: donde è venuta varietà di prezzo fra la moneta del Banco, e la corrente; la quale disparità è detta agio di Banco. Il denaro una volta intromesso non è lecito riprenderlo poi, ma solo si può nel modo sopraddetto spenderlo; onde venne il detto, che il Banco buono è quello che non paga. L'utilità del Banco è la facilità del pagamento renduto esente da trasporto e da altri rischi, e la sicurtà della custodia divenuta infinitamente maggiore che nelle casse proprie o de' privati. Ma tutti sì fatti comodi si conobbe per esperienza non bastare a muovere gli uomini a privarsi della vera moneta; e la fede delle repubbliche non parve neppur bastante ad assicurare i timori degli avari. Quindi convenne forzare gli uomini a depositar la moneta; il che si fece con vietare, mediante l'autorità della legge, il potersi pagare le lettere di cambio, tutte le grosse mercanzie, ed ogni altro gran prezzo, oltre una data mediocre somma, con altra moneta, che di Banco. Così ne' paesi di commercio divenuta necessaria più dell'oro e dell'argento una moneta che il compratore era forzato ad usare, ed il venditore non potea ricusare, i Banchi furono tosto riempiuti. Quello di Venezia è fissato ad essere di cinque milioni di ducati; ma quello d'Amsterdam ha senza dubbio intromessi per quasi 300 milioni di fiorini. Quanti ve n'abbia ora riposti è incerto; come lo è incerto del pari di quello d'Amburgo. Ma la repubblica assicurando il Banco, e rendutasene mallevadrice, fa che non si cerchi riavere quel denaro che non esistendo nel Banco dovrebbe dalla repubblica darsi: e poiché la repubblica distinta da' privati è un ente chimerico, non si può da lei sperar altro che le sustanze de' privati al bisogno pubblico convertire. E perciò i privati sono creditori di loro medesimi senza avvedersene: e questo non avvedersene fa che si sia potuta moltiplicare la moneta rappresentandone più centinaia di milioni di fiorini senza doverla scavare. Perciocché è da aversi per fermo, che siccome i mercanti non lasciavano sepolti i loro depositi, così le repubbliche col danaro de' Banchi hanno soccorse le loro gravi necessità: e così gran parte dell'oro depositatovi n'è stato tratto fuori. Sicché il danaro de' Banchi loro ha mutata natura, e da deposito è divenuto imprestito fatto al pubblico; ma imprestito, a differenza degli arrendamenti, gratuito, e senza frutto d'interesse.


In oltre s'è conosciuto nuocere al commercio il divieto d'estrarre il danaro una volta immesso; e che sebbene fosse vero che il Banco buono è quello che non paga, è vero anche che il Banco accreditato è quello che non è restio a pagare. Perciò a Venezia s'è istituita una cassa pel pagamento del contante, la quale lungi dal diminuirne ha moltiplicate le ricchezze, ed assicurata la fede del Banco: ed in Olanda è convenuto tollerare il potersi stipulare le vendite in contante, e che molti negozianti pagassero col contante i crediti in Banco, mediante un otto per cento di guadagno; il quale otto per cento è quel che vale dippiù la moneta vera e presente, che non la carta.


L'exciquier d'Inghilterra, detto anche il Banco reale, non si rassomiglia a' già detti, se non in quanto le sue fedi sono in libero commercio; ma nella sua origine egli fu un imprestito fatto al principe da' privati, donde si percepisce frutto. Ma siccome non è sempre certo il giorno de' pagamenti, né sempre sicuro, di tale probabilità si fa un commercio, e secondo la maggiore o minore probabilità varia il valore di cotesti crediti. Commercio che non è creduto ingiusto se non dal volgo solito sempre a dire ciò che gli duole contrario alle leggi umane e divine. Ma se a torto si biasima un commercio che, convertendo in guadagno il prezzo dell'ardire incontro a' pericoli, rende fruttifera una merce che in sé stessa non lo è; non si può non biasimare quel governo dove si lascia correre una moneta il valore della quale sia sempre incerto ed ignoto. Poiché essendo quella virtù ch'è utile alla patria rare volte congiunta coll'avidità e destrezza a guadagnare, accade (come avvenne appunto in Francia) che le mercedi delle virtuose opere del soldato sono portate via dagli agioteurs, che non hanno servita la patria.


La Francia fu priva di Banchi di qualunque spezie fino al 1716 quando ne istituì uno Giovanni Law scozzese sotto la protezione del duca reggente. Siccome fu questo il primo passo, e quasi la base del sistema suo, di cui s'è tanto ragionato al mondo, e che è certamente stata una delle più strane produzioni dell'intelletto umano; io credo non essere disconveniente dire quel ch'io di tal sistema ne stimi. La mia opinione è stata sempre, che il duca d'Orléans non fosse complice de' disegni del Law, uomo d'ingegno mirabile e rarissimo, ma senza virtù e senza religione: quindi credo che sieno stati due i sistemi del Law: uno pieno di spettri d'utilità, e ch'era da lui rappresentato al duca ed alla intiera Francia; l'altro destinato solo a saziare l'avarizia sua, la quale dovea essere tanto più ardente, quanto egli era stato più lungo tempo povero e miserabile.


Non si può contrastare esser restata la Francia al tempo della morte di Luigi XIV esausta di danaro, e quel ch'è peggio ripiena di biglietti discreditati. Se tali biglietti avessero avuto prezzo fisso e sicuro, non avrebbe il commercio sofferto danno veruno; ma poiché essi erano non meno ricusati da' venditori, che trafficati dagli agioteurs con varietà di prezzi grandissima, ne veniva una generale lagnanza contro sì fatte carte che dicevansi billets d'état. Conveniva dunque estinguergli. Con un fallimento, la Francia restava senza moneta affatto, ed era distrutta. Con moneta non potevano esser pagati, poiché la Corte non ne avea: dunque s'aveano i biglietti di stato da convertire in altri, a' quali il popolo avesse fede maggiore. Quando uno stato perde la sua moneta è come un artefice che nell'estrema indigenza vende gl'istrumenti dell'arte sua. Allora egli è per sempre ruinato; non avendo danaro per ricomprare i ferri, né ferri per acquistar travagliando il danaro. Così la Francia non potea coll'industrie e la pace ristorarsi, poiché senza danaro non avean corso l'industrie. Perciò l'arricchirla di monete di carte, che non costava mercanzie, ma che dava modo a sostenere le manifatture e raggirarle, era lo stesso che donare all'artefice tutti gli ordigni suoi. Allora basta aver tranquillità e tempo, che subito risorge uno stato. Ecco il cospetto utile e bello del sistema di Law. Aveansi ad estinguere i biglietti di stato già caduti dalla fede pubblica. Doveasi crear nuova moneta, in cui si avesse fede, sicché richiamasse argento ed oro straniero in Francia. Quando poi era la Francia bastantemente ristorata, anche le nuove carte doveano aver la sorte delle prime.


Per distrugger i biglietti ne fu fatta imprima una riduzione non con perdita eguale in tutti, ma con distinzione regolata secondo il merito delle persone che servendo la patria erano su di lei rimaste creditrici, e con biglietti erano state pagate. Operazione savissima ed atta a rallegrare il popolo; essendoché l'uomo non si consola che nell'aspetto d'altri più danneggiato di lui: né è meno capace di contentarci (tanta è la nostra malignità) l'invidia altrui, che la propria prosperità. Dopo la riduzione restava ancora un debito di duecento milioni di lire in biglietti. Per consegrar anche un tal residuo alle fiamme, fu proposto l'alzamento d'un terzo di tutta la moneta: e siccome la Francia, ch'è sei volte almeno maggiore del nostro Regno e più denarosa, ha sopra sei cento milioni di lire di moneta, certamente restava estinto il debito della Corte; ma non potea evitarsi che non rimanesse soverchiamente priva di danaro. La Banca Generale avendo stabilito un fondo d'un milione e ducento mila scudi in mille e ducento azioni, quando avesse avuto credito tale che, anche togliendo dal deposito il danaro intromessovi, non fossero state le carte sue ricusate, accresceva la moneta di Francia ad un grado forse maggiore del proporzionato al traffico suo. Non restava dunque a far altro che sostenere in credito la Banca, ed era la Francia guarita, il debito disfatto. I modi tenuti ad accreditare i biglietti della Banca furono tutti quanti più ve ne sono. Furono renduti necessari, ordinandosi che con essi soli si potessero pagare i tributi alla Corte; donde il commercio loro divenne grandissimo. Furono dichiarati privilegiati sopra ogni altra carta, e quasi sull'argento stesso: e se in questi termini si fosse restato, niuna operazione più utile e gloriosa avrebbe avuta il governo del duca d'Orléans.


Ma Gio. Law non poteva esser contento che del bene suo e d'acquisti sterminati: e siccome la moneta, ch'egli avea recata seco, erano carte, non curava altro che accrescerne il valore; così non contento che queste fossero immagini della moneta, volle farle più preziose d'essa. Non fu difficile ingannare il reggente, e persuaderlo dover esser utile l'invigorimento di quegli ordini che si conosceva essere stati buoni. Quindi per render fruttifere e perciò pregevoli le azioni si creò una Compagnia di commercio piena di larve e sogni di traffichi; ed i frutti delle azioni non meno solleciti che smisurati le fecero incarire. Per l'altra parte si dichiarò guerra alla vera moneta con ferocia e crudeltà incredibile: fu sbassata, alzata, ribassata con salti grandissimi e repentini; poi fu bandita dal regno; indi vietato l'immetterla, e permesso l'estrarla; in fine tolta per forza a' possessori e cambitata con carte della Banca già diventata Reale, ed incorporata colla Compagnia dell'Indie. In tanta vicissitudine e disordine, si videro i biglietti valere il cinque per cento più del denaro vero: le azioni della Compagnia esser tanto ricercate, che pervennero ad apprezzarsi il due mila per cento. Quindi seguirono effetti mirabili, e che sarebbero immeritevoli di fede se non fossero avvenuti. Una vedova di Namur, che avea piccolo credito per servigi prestati ad uffiziali nelle campagne, si trovò ricca di sessanta milioni di lire. La Banca moltiplicò i biglietti fino a duemila settecento milioni di lire. A proporzione crebbero apparentemente i prezzi delle merci; ed in fine tutti i debiti, i censi e le rendite pubbliche furono estinte, e fatta tanta mutazione nello stato della Francia, che si può benissimo dire essere stato l'anno 1720 per essa un anno di Giubileo simile a que' degli Ebrei; ma tanto più singolare, quanto più insolito, meno previsto, ed in un regno maggiore. In mezzo a tanto scompiglio saziò certamente il Law l'animo suo, avendo acquistate sopra quaranta milioni di lire quasi tutte in contante, o in fondi stabili nobilissimi e regi. Perciò a' 21 maggio 1720, due anni soli da che il sistema erasi cominciato, gli fu dato il primo crollo colla diminuzione e discredito de' biglietti, i quali furono poi a' 10 ottobre soppressi ed estinti. Così per soddisfare un debito di soli duecento milioni di lire di biglietti di stato, si restò dovendone duemila e settecento milioni di biglietti di Banco. Questa è in breve la storia del sistema del Law. Avvenimento memorabile, ed atto a dimostrare quanto possa l'ingegno d'un uomo in mezzo a un popolo furiosamente amatore del nuovo, ed incapace di riguardar le cose a sangue freddo.


Intanto può ciascuno comprendere essere stato il sistema dannoso, perché condotto a troppa estremità: la Francia essersi trovata sana dopo sì grandi accidenti, perché il contadino non sentì il male del sistema, e le terre e i frutti di essa furono favoriti dal sistema, che ne accrebbe i prezzi ed il consumo: e finalmente l'avere un regno una mutazione simile a quella del Giubileo dalla sapienza del legislatore giudaico imaginata, non essere cosa che meritasse non avere fra gli altri legislatori niun imitatore, come quella che contiene in sé talvolta utilità grandissime e singolari.


Avrebbe la storia della Banca Reale di Francia meritato ch'io vi avessi più lungamente e particolarmente discorso; ma i limiti della mia opera non me lo permettendo, terminerò qui di dire de' Banchi, e dirò degl'imprestiti pubblici.


Sono gl'imprestiti di varia natura: alcuni producono frutto, altri no; e di que' che danno frutto altri lo danno per sempre, altri a vita. Della prima spezie sono i depositi de' Banchi convertiti a' bisogni pubblici, de' quali ho di sopra ragionato; dell'altra sono tutte le rendite che noi chiamiamo arrendamenti, fiscali, istrumentari; in Roma diconsi luoghi di monte, e vacabili; in Francia rentes sur l'Hôtel de ville; ed in fine in ogni principato con diverso nome sono dinotate. Sebbene i fondi, o sia capitali (che in molte parti sono dette azioni, per lo dritto che danno a conseguire i frutti) sieno, come ho detto, fruttiferi, pure nel commercio prendono una co' frutti, e colla probabilità loro un valore certo e noto; e così vengono dati e comprati quasi come moneta. Nel nostro Regno essendosi permesso che sì fatte rendite potessero con fedecommessi, ipoteche e debiti vincolarsi e caricarsi, è divenuta la compra loro un affare molto più lungo e difficile, che non la traslazione delle fedi di credito. onde è nato che le partite d'arrendamenti non corrono come moneta. Intanto perché i dazi destinati a pagare i frutti de' danari imprestati furono ceduti in solutum a' creditori, hanno gli arrendamenti cambiata natura, e sono divenute tante società e compagnie simili in tutto, quanto alla forma, alle compagnie delle nazioni commercianti, colla sola differenza che gli azionari, detti fra noi consignatari, s'occupano non in traffichi, commerci e scoperte lontane, ma in amministrare rigidamente e far fruttare quella porzione di tributi stata loro assegnata.


Tra gl'imprestiti con frutto a vita, oltre a' vacabili noti abbastanza, sono le tontine; invenzione bellissima di Lorenzo Tonti napoletano, proposta la prima volta in Francia il 1653, ma non eseguita se non dopo la morte sua il 1689. La loro forma è la seguente. Si stabilisce un fondo di danaro diviso in moltissime azioni, o come noi diciamo, carate: e queste sono poi ristrette in poche classi, sicché ciascuna classe, per esempio, n'abbia mille. Coloro i quali hanno azioni in qualche classe, si dividono i frutti dell'intero capitale di quella classe, guadagnando sempre le porzioni de' compagni che muoiono, e così fino che ne resti uno, il quale percepisce tutto il frutto d' una classe, che morto lui rimane estinta in beneficio del sovrano. Ma i biglietti delle tontine non possono circolare come moneta; come nemmeno que' delle lotterie, e perciò io non ne discorrerò più a lungo.


Le Compagnie sono state istituite principalmente per le navigazioni e i commerci dell'Indie e de' mari lontani, che quanto erano lucrosi, altrettanto ripieni di pericoli, di perdite e di spese grandissime. Le azioni loro spesso si commerciano quasi come moneta: ed avendo in molti paesi le Compagnie dato danaro, o pagati i debiti del sovrano, hanno cambiata natura, ed in parte sono divenute simili a' nostri arrendamenti. La forma loro è in tutte simile; e si potrà comprendere colla descrizione di quella del Banco di S. Giorgio di Genova, che si può dire la prima di tutte, fatta da un antico scrittor fiorentino. ((Poiché i Genovesi)) (dic'egli) ((ebbero fatta pace co' Veneziani dopo quella importantissima guerra che molti anni addietro era seguita fra loro; non potendo soddisfare quella loro repubblica a quei cittadini che gran somma di danari aveano prestati, concesse loro l'entrate della dogana, e volle che secondo i crediti, ciascuno per i meriti della principal somma di quell'entrate participasse, infino a tanto che dal comune fossero interamente soddisfatti. E perché potessero convenire insieme, il palagio il quale è sopra la dogana loro consegnarono. Questi creditori adunque ordinarono fra loro un modo di governo, facendo un consiglio di C di loro, che le cose pubbliche deliberasse, ed un magistrato di VIII cittadini, il quale come capo di tutti l'eseguisse; e i crediti loro divisero in parti, le quali chiamarono luoghi; e tutto il corpo loro S. Giorgio intitolarono. Distribuito così questo governo, occorse al comune della città nuovi bisogni, onde ricorse a S. Giorgio per nuovi aiuti, il quale trovandosi ricco e bene amministrato lo poté servire: ed il comune all'incontro, come prima gli aveva la dogana conceduta, gli cominciò per pegno de' danari che aveva a conceder delle sue terre: ed in tanto è proceduta la cosa, nata da' bisogni del comune e i servizi di S. Giorgio, che quello si ha posto sotto la sua amministrazione la maggior parte delle terre e città sottoposte all'imperio genovese, le quali governa e difende, e ciascun anno per pubblici suffragi vi manda suoi rettori, senza che il comune in alcuna parte se ne travagli. Da questo è nato che i cittadini hanno levato l'amore al comune, come cosa tiranneggiata, e postolo a S. Giorgio, come parte bene ed egualmente amministrata; onde ne nasce le facili e spesse mutazioni dello stato, e che ora ad un cittadino, ora ad un forestiero ubbidiscono; perché non S. Giorgio, ma il comune cambia governo. Talché quando tra i Fregosi e gli Adorni s'è combattuto del principato, perché si combatté lo stato del comune, la maggior parte de' cittadini si tira da parte, e lascia quello in preda al vincitore. Né fa altro l'uffizio di S. Giorgio, se non quando uno ha preso lo stato, fargli giurar l'osservanza delle leggi sue; le quali infino a questi tempi non sono state alterate, perché avendo armi, danari e governo, non si può senza pericolo d'una certa e pericolosa ribellione alterare. Esempio veramente raro, e da' filosofi in tante loro immaginate e non vedute repubbliche mai non immaginato, vedere dentro ad un medesimo cerchio, fra' medesimi cittadini la libertà e la tirannide, la vita civile e la corrotta, la giustizia e la licenza: perché quell'ordine solo mantiene quella città piena di costumi antichi e venerabili)). Molte parti dell'antecedente descrizione converrebbero benissimo alle Compagnie presenti, e principalmente a quella dell'Indie Orientali d'Amsterdam; la quale è tratto tratto divenuta una repubblica forse più potente e più ordinata dell'altra in cui è nata.


Ora è tempo ch'io restringa il mio discorso a dire delle cose patrie, e principalmente de' Banchi; la conservazion de' quali per tanto tempo sostenuta fra noi ci fa certamente grandissimo onore. All'autore dello Spirito delle leggi è venuto detto che non si possono istituir Banchi ne' regni che hanno commercio di lusso, come la Francia, la Spagna, e l'altre monarchie. Ponergli, dic'egli, in uno stato monarchico, ((c'est supposer l'argent d'un côté, et de l'autre la puissance, c'est-à-dire d'un côté la faculté de tout avoir sans aucun pouvoir, et de l'autre le pouvoir avec la faculté de rien du tout. Dans un gouvernement pareil il n'y a jamais eu que le prince qui ait eu, ou qui ait pu avoir un trésor: et par tout où il y en a un, de ce qu' il est excessif, il devient d'abord le trésor du prince)). Tanto a lui pare impossibile che il principe, benché lo possa, non voglia occupare le ricchezze de' sudditi suoi. Ma s'egli avesse riguardati noi, avrebbe veduto un regno certamente monarchico, e tale anzi, che eccetto i regni barbari dell'Oriente, niuno n'è forse al mondo ove i decreti del sovrano sieno più venerati e prontamente ubbiditi. Un regno in cui le rimostranze de' parlamenti e del clero della Francia, che anco è monarchia, parrebbero sediziose. E pure in questo regno avrebbe veduti da antichissimo tempo istituiti Banchi, mantenervisi, fiorire, ed essere ripieni di tante ricchezze, che alla piccolezza del Regno sono certamente smisurate. Tanto può la virtù di chi regge assicurare i popoli dall'abuso della potestà. Vedrebbe in oltre in tanto spazio di tempo, come è la vicenda delle umane cose, alcuni Banchi aver vacillato per le rapine de' ministri; ed uno anche (sebbene non per così brutta cagione) esser fallito: ma in tanti e sì vari avvenimenti, in tanto bisogno della monarchia spagnuola, nella frequentissima mutazione di governo in un mezzo secolo tre volte cambiato; e finalmente nelle ultime guerre ed angustie di pestilenza, vedrebbe, io dico, mai non aver data il governo neppur ombra di timore al pubblico; non avere avuta nemmen per sogno parte alle disgrazie d'alcuno de' Banchi; né essere il danaro del principe sparso in essi considerato più di quello d'ogni miserabile. Questo mirabile innesto de' frutti della libertà col governo assoluto è la maggior gloria del nostro; e quantunque abbia pochi e rarissimi esempi, non dovea però quell'autore dall'avvenimento tragico della Banca Generale di Francia tirar conseguenze universali, e dichiarar natura del governo monarchico ciò ch'è difetto in lui. Il che s'egli avesse sempre fatto, non avrebbe composto un libro pieno di massime che sembreranno vere solo a chi è nato in Parigi, e vi è nato nel secolo decimottavo dell'umana redenzione.


Sonosi adunque mantenuti in credito i Banchi nostri, perché la Corte ha mostrato quasi non saperli neppure. Il governo loro è in mano di privati onestissimi, i quali riguardando giustamente la cura del ben pubblico come opera pia e divota, usano un disinteresse sommo e dirò quasi miracoloso. Il danaro depositato vi si conserva religiosamente; e sebbene noccia il ristagnamento, pure poiché nuocerebbe più la perdita de' Banchi, e l'una cosa con l'altra in una monarchia non possono essere, è bene il restare il danaro nel Banco. Ed ecco la differenza tra i Banchi delle repubbliche e que' delle monarchie. Quelli sono atti a moltiplicar la moneta e a soccorrer lo stato, e sono sostenuti dalla pubblica fede: perciò l'esserne la suprema potestà mallevadrice è buono. Questi sono unicamente buoni a custodire e meglio raggirar la moneta. Gli rende sicuri la virtù de' privati e il rigore delle leggi, l'allontanamento d'animo del sovrano, e l'esistenza del danaro depositato sempre pronto ad esser renduto: e perciò chiunque ardirà proporre (come taluno v'è stato) di togliere il danaro da' Banchi stati prima garantiti dal principe, e rimetterlo nel commercio, sarà da me liberamente chiamato inimico della patria e della pubblica tranquillità. Meriterebbono gli ordini de' nostri Banchi, che sono tutti prudentissimi, essere fatti noti al mondo, potendone Napoli ritrarre onore: ed io l'avrei fatto volentieri, se dentro i confini della presente opera gli avessi potuti restringere. Ma non si può. Se ne potrà vedere alcuna parte descritta in un'allegazione fatta (non sono ancora molti anni) in difesa d'un cassiere d'un Banco da uomo che fa onore alla patria ed alla prudenza legale. Le sole cose che mi pare potriano esservi migliorate sono:


I. Che tutti s'avrebbero quasi ad unire in un solo. Intendo dire, che le fedi di ogni Banco fossero liberamente accettate in ciascuno, e pagate. II. Che le contate di cassa si facessero tutte in uno stesso tempo in tutti i Banchi in incerto giorno: sicché non potesse la frode d'un cassiere restar ascosa colla falsa dimostrazione d'un credito che abbia un Banco sopra un altro. III. Vorrebbe esser minore il numero de' notai che possono autenticare; acciocché potendone esser meglio note le firme, fosse meno facile l'abbaglio del pandettario, cioè di quell'officiale cui incumbe riconoscere la veracità della fede. IV. In ogni città riguardevole del Regno s'avrebbe a scegliere un notaio de' più onorati, l'autentica del quale tenendosi registrata nel Banco non fosse controvertita; con che si aiuterebbe al comodo di chi vive nelle provincie. E se in qualche città, come Gallipoli e Foggia, si stabilisse un Banco, o si trasferisse alcuno de' nostri, non credo potesse esser nocivo.


Parrà agli stranieri mirabile che i Banchi di Napoli non dando frutto nessuno del danaro a differenza del più degli altri, né essendo per legge rendute necessarie le fedi ad alcun pagamento, come è in Venezia e in Olanda, parrà, io dico, strano che sieno tanto ripieni di moneta. Ma una meraviglia tale cessa dacché si riguarda l'indole del popolo inclinata meravigliosamente alle liti ed al negare. Le fedi di credito assicurano non solo il pagamento, ma il titolo d'esso con certi stabilimenti particolari a noi. E così ciò che altrove fa la forza delle leggi e lo stimolo del guadagno, fra noi lo fanno i costumi corrotti e la mala fede. Ma non si può negare che l'aver fatto servire i Banchi all'estinzion delle liti sia stata cosa bella e giudiziosa.


Compagnie non sono fra noi, non avendo noi tanto commercio che possa nutrirle. La quale mancanza di commercio è da molti, che invidiano lo stato presente delle potenze marittime, scioccamente attribuita a nostro difetto. Ma questo commercio, come lo intendono essi, non è il principio della grandezza di quelli stati. Il terreno popolato fa la forza degli stati; e chi ha più terre e più sudditi è maggiore. Né la potenza può nascere da altro, che donde la trassero i Romani, cioè dalla conquista e dall'altrui servitù. Questo è il commercio delle Compagnie inglesi, olandesi e francesi. Gran conquiste fatte, gran terreni, gran frutti, e gran numero di schiavi. Ma siccome stanno lontani, noi gridiamo commercio commercio in vece di dire armi e virtù militare. Sulle carte potremo misurare la minore delle loro colonie, e tr0varla grande quasi quanto è tutto il Regno di Napoli.


Io ho conosciuto un nomo rispettato per la franchezza di ragionare delle cose politiche e de' fatti de' principi tutti d'Europa. Costui una volta, misurata la provincia d'Olanda, e trovatala minore delle nostre Calabrie, dopo lungo silenzio tratto un profondo sospiro dal petto, disse: guardate quanto vale un pugno di terra paludosa o arenosa abitata da conigli e da ranocchi. Ed ognuno a tali detti applaudiva. Intanto altri mosso da più saggia curiosità volle misurare quanta terra occupavano tutte le colonie e gli stabilimenti olandesi; que, d' America, della costa di Guinea, del Capo, l'isole di Ceilan, di Java, di Borneo, le Molucche, ed in fine ogni cosa. Ad esse aggiunse le terre di tutti i principi tributari, o così congiunti che dipendano interamente da loro, e si trovò che tanti stati uniti alle Sette Provinciel non erano minori della Francia. Adunque i Paesi Bassi olandesi non sono la repubblica, ma il mercato di lei. La repubblica è sparsa per tutto l'universo, ed una gran parte n 'è vivente perpetuamente sullo stesso mare. Ora chi riguarderà che l'ingrandirsi uno stato colla vendita delle merci sue natie è pregio dell'agricoltura, non del commercio; e poi avvertirà a quante merci nate in terreni olandesi ei consuma, troverà che l'agricoltura è la madre delle ricchezze. Dopo l'agricoltura è la pesca, altro fonte di merci e di ricchezze, ed in fine è la caccia, dalla quale molte nazioni, come è la Moscovita, traggono gran frutto: tutto il resto è piccola cosa.


Sicché quel commercio di cui piangiamo noi la perdita, e ce ne incolpiamo, lo riacquisteremo scoprendo nel Mediterraneo qualche luogo ripieno di balene, qualche lido d'aringhe o qualche banco di merluzzi; e quando tagliato lo stretto di Suez anderemo prima degli altri all'Arabia ed all'Indie, e saranno nostre le Molucche, Ceilan, Batavia, e il Capo.


Io non dico che presso di noi il commercio non possa ricevere grandissimi miglioramenti; e dalla presenza d'un principe virtuoso molto è da sperare, e molto già si comincia ad ottenere. Ma convien esser persuaso che il commercio senz' aumento d'agricoltura (perché di pesche e di cacce non ne abbiamo alcuna) è uno spettro e un'ombra vana. E sebbene il commercio e l'agricoltura sieno concatenate insieme in guisa tale che ciascuno è effetto insieme e cagione dell'altro; pure riguardando più attentamente si troverà esser anteriore sempre l'agricoltura al traffico: perché il florido commercio viene dall'abbondanza de' generi superflui, e questa dall'agricoltura; la quale è fatta dalla popolazione; la popolazione dalla libertà; la libertà dal giusto governo. Le due ultime noi le abbiamo già, ed in parte anche la popolazione accresciuta: perché dunque non abbiamo maggior coltivazione? Egli è perché de' dazi nostri, che non sono in sé stessi smisurati, il peso preme troppo più le provincie che la capitale: difetto antico, e che va a gran passi diminuendo; e s'egli non lo è del tutto, non solo non può incolparsene il presente governo, ma è anzi mirabile che in sedici anni soli siasi fatta tanta e così subitanea mutazione. E se non si conoscesse esserne la causa la somma virtù del principe, sarebbe cosa incredibile e miracolosa.